L’ultimo racconto

postato il 6 Set 2011 in Main thread
da ad.6

L’immenso sole era rosso e nero il cielo senza stelle. I piedi dell’uomo calcavano con incedere lento e pesante il suolo polveroso e lo stesso facevano i sandali della donna e le scarpe del bambino e le gocce di una pioggia in un mondo senza nubi. E senza concedere alla terra il riposo e il conforto dovuti a una madre malata, il capo reclino ma vigile sulle lenzuola del tempo passato, l’uomo e i mille e mille come lui, con i loro leggeri passi sconfitti ma forti della propria rassegnazione, percuotevano la sabbia che, sollevata dal costone della collina, riempiva la vallata sottostante e il fiume, i cuori degli uomini e con essi il mondo intero, mutando tutto in sabbia.

Lì, circondata dai bruni colli da lontano giunti per adorarla, si ergeva immane e sconfinata la Roccaforte Celeste, ultima e più grande espressione dell’umano attaccamento alla terra, nelle ere che furono, alla quale lo straordinario castello, assieme alle aride colline, cingeva il capo, comico diadema per la decrepita reginella del cosmo.

<<Avanti, figliolo. Pochi passi, poche ore e saremo alla Celeste, tutti assieme come all’inizio dei tempi>> sospirò il padre rivolto al figlio mai avuto mentre arrancava assieme a tutti gli altri in incommensurabile carovana. “E allora l’Ultimo Re chiamò a raccolta le genti da ogni luogo e la terra rispose a lui unita e compatta preparando il carro verso i sentieri del sole”* si ripeteva la litania, quasi un inno sacro, ben più che un rituale magico, figlia di un mondo in cui finalmente la scienza era tornata a chiamarsi magia e in cui la religione non era più che un’ombra di ciò che fu, ormai rimasta senza speranza, che è l’unico Dio dell’uomo.

Così, sotto la magica calotta di piombo fuso che oscurava il cielo e preservava la terra, da ogni parte del mondo sulle cineree cime attorno alla Roccaforte Celeste confluivano i fiumi ultimi della vita che, curvi e vorticosi in perfetta simmetria, formavano con i loro plotoni di uomini un nuovo sole pulsante, a sfregio del suo ormai immobile fratello, e calmo e vivo le spire di questo avvolgendosi in maniera fluida ed incolore attorno alle antichissime pietre della Rocca “ch’è fine e fulcro per cui ruotano il tempo e la storia”**.

La Roccaforte Celeste, cuore e culla dell’uomo e degli dei, era loro rifugio nei periodi di maggior travaglio: narrano i testi di come vi si ripararono i secondi allorché furono primariamente sconvolti dalla nascita della vita (Quale vita? Nascere? Morire?) e del giorno in cui lo faranno i primi, parimenti sconvolti di fronte alla chiave dell’immortalità, che è il nulla. Ecco quindi il dono e il pegno, la promessa e l’imposizione dell’ultima cattedrale del cosmo: sarai dato alla luce, luce sei e nella luce svanirai come le ombre; l’essere dei non è un’aggiunta ma una privazione e dovrai dare in pegno una sola, effimera cosa: l’esistenza.
Così eccolo il baluardo della vita che non è più (né forse è mai stata) speranza accogliere in sé le ultime lacrime dell’uomo e rifulgere di queste. Ogni uomo è lì lacrima dei propri occhi perché gli occhi ormai non potendo piangere sono sostenuti dai monti e dalle nubi che, non potendo confortarli, soffrono e piangono per loro.

La polvere in prossimità del centro del sole viene calpestata da passi di donna. La donna cammina portando in braccio la figlioletta, la quale non emette suono né può (né vorrebbe) spostare la polvere che fa da silenziosa cappa al mondo: non esiste.

<<Rimira l’alta dimora dell’Ultimo Re, figlia mia>> fu la frase che disse, gli occhi al suolo di ruggine, la donna rivolta alla figlia che non aveva. E la donna stessa, in altri tempi, sarebbe stata chiamata duchessa se non fosse stata uguale, nell’estremo frangente, a tutte le altre donne. E sarebbe stata detta donna se in quegli ultimi attimi, alla fine del mondo, tutti gli uomini non fossero uguali, in cammino nella polvere. Fu così che il magro profilo, senza ricevere risposta alla domanda che non aveva fatto, entrò.

Ma, voi, guardate l’edificio celeste le cui fondamenta furono poste dalle immortali braccia degli dei antichi! Voi che potete, prostratevi dinnanzi alla gloria della magia che ancora tiene assieme la terra con la terra e l’uomo con l’uomo! Le mura svettano dal suolo tanto massicce e tanto estese da parere non meno di un altro suolo e di un’altra tutt’altro che indifferente tessera del cosmo; tuttavia sono così leggere e così fini da sfidare l’aria ed il vento ad attraversarle senza che nessuno dei contendenti ne risenta minimamente. Costole e braccia e ossa del pianeta, erano inizio e fine e pura luce. Ma quale meraviglia nell’occhio indagatore nel vedere che, quale ultima effige del mondo in rovina, anche la Celeste rovinava! Quale sgomento nel notare le crepe nei muri, gli intonaci scrostati, gli arazzi in polvere, i gradini scheggiati, le torri senza camminamenti né guardie, le guglie spezzate! Quale indicibile dolore e malinconia nel trovare l’atrio freddo e muto dove una volta erano calore e gradevole musica, la luce debole e soffusa, gli scaloni principali divenuti ormai un’unica salita verso il primo salone attraverso la sola anta rimasta ad una porta ch’era d’oro e diamante! Quale parola potrà dire come le sale siano diventati corridoi, una volta crollate le divisioni tra queste, come le porte assi di legno e i soffitti pavimenti? Questo rende la Città del Cielo impareggiabile tra le creature concepite! “Specchio e immagine immortale dell’universo”, riassume in sé le fratture e i tormenti e gli spasmi ultimi del mondo ed è in questo che compie veramente se stessa e si completa, perché le fessure e le crepe e le mancanze sono tante e tanto aerei e fini i muri e le costruzioni che più non è dato, nella sabbia che vortica come un tempo vorticavano i pianeti attorno al sole, distinguere la parete dalla finestra o il vetro dalla luce, la luce dal vetro. Impossibile ormai per lo sguardo disattento, umano, discernere il dentro dal fuori, questa la prima vittoria della Roccaforte Celeste, la quale ingloba in sé il nulla e il tutto, insieme come ai primordi. La prima, lo sguardo dell’uomo. La verità, ancora visibile, in quegli istanti, solo agli occhi degli dei, era il permanere, intatto, di un unico, invisibile muro grazie al quale, ai loro stanchi occhi, pareva ancora esistesse una Rocca distinta dal Mondo. All’interno, dunque, ecco il compassionevole sorriso quando, dopo gli atrii e gli scaloni e i corridoi e i soffitti, si giunge alla sala reale dell’Ultimo Re, dell’uomo e del cosmo. Era lì che vestiva una corona spezzata e, quale estrema gemma, con la Celeste, vestiva da corona al mondo. Quasi più che figura, egli sedeva sul trono che fu dei suoi padri, di grandezza spropositata lo faceva sembrare un bambino, ramoscello in mano e sterpaglia sul capo da poco immerso tra i fiori del campo erboso, giocando a fare il re. Quale spettacolo, allora, sul suo trono senza schienale e senza braccioli, senza tessuti e velluti, vedere una tale schiera di piccole formiche tornare in una casa ormai per loro indistinguibile dal mondo, tornare da lui, tornare sotto lo sguardo degli dei ormai da troppo tempo silenti nel loro rifugiarsi dalla vita! “A mirar siffatta, composta turba non sarà tuttavia spettacolo alcuno, ché spenti saranno gli occhi dell’uomo e gli occhi di dio, gli uni per sempre, gli altri da sempre e per sempre***”.

Entrati che furono tutti, nei mesi, nella sala del trono, l’Ultimo Re sollevò il pesante braccio ricoperto di stracci così smuovendo la cenere accumulata dallo scorrere inarrestabile dei secondi, aperse la bocca e da questa uscirono parole di polvere che lentamente si adagiò al suolo. Uno solo poté udire quello che l’uomo non poteva aver detto coi suoni. Fece il suo ingresso.

Chiamato dal Re, entrò nella sala vestito di compatta polvere che appariva come luce una persona come quelle di un tempo, come gli dei ancora prima, con le iridi del colore del cielo profondo. E lo sguardo calmo e comprensivo, esile l’alta figura ma solida come i monti. Sorrise e le tenebre, benché inesorabilmente attanagliate attorno al morente cuore del mondo, abbandonarono per un istante gli occhi degli uomini che finalmente lo videro.

<<Eccomi a voi>> e le parole, normalissime ma belle come le cose che svaniscono nel tempo e nello spazio senza lasciare traccia di sé, riscossero i loro cuori dagli abissi, un’ultima volta.

<<Siamo qui per narrarvi una breve storia ciclica, la vostra e la nostra storia, di come nacque il mondo che conosciamo e di come non finirà, delle leggi che lo regolano e dell’eccezione, che è legge e speranza dei vivi e degli immortali. Ascoltatemi e guardate ciò che dico, di modo che il mio verbo sia per voi la luce, perché ormai è il tempo delle tenebre.>>

Con tali parole cominciò lui e loro iniziavano ad ascoltarlo con la noncuranza del vento. Li guardò, allora, illuminandoli della propria inspiegata forza e narrò del principio dell’universo, della fiamma, del tremendo rumore, dei colori, della vita, dell’uomo, della magia, della scienza, della magia, nuovamente. Ad ogni parola, ad ogni sillaba, risuonava di più il cristallo dei cuori degli astanti, dell’umanità, e di più questi abbandonavano il tramonto per poter immaginare l’alba.

<<Ed ecco che l’uomo, casuale inabitante del giardino di dio, colse l’ultimo barlume di ragione in una mente ormai allo stremo e comprese che il mondo andava morendo: spente sarebbero diventate le stelle e freddo tutto ciò che è, l’erba polvere e le piante e i viventi e tutto sempre e solo indistinguibili e radissimi granelli di polvere. Aveva inoltre compreso che, sebbene il mondo fosse stato in costante declino fin dalla nascita, tuttavia il sapere umano era non dissimile dal sole nel suo corso, il quale prima sorge e già esulta per la propria vittoria sul mondo quand’ecco che ormai declina e si spegne, e allo stesso tempo compresero che inevitabile sarebbe stato il tramonto della scienza. Allora, sfruttando di questa l’attimo di massimo fulgore, si adoperarono affinché, quand’anche il sole e le stelle fossero morte, il pianeta potesse continuare il suo viaggio disperato nel vuoto, sfruttando le ultime, esigue energie dell’universo. Poi che il sole ebbe posato finalmente il capo tra le eque braccia del nulla e con esso, già da ere, la creatività degli uomini e l’anima della scienza, si mise in atto il grandioso programma degli antenati, senza che ormai nessuno potesse comprenderlo, e fu costruita, o forse rivelata, la Roccaforte del Cielo e innalzata dall’antico sapere la magica e plumbea coperta che è culla e capezzale alla terra e all’uomo. Fu subito il momento di inviare, secondo quanto ultimamente disposto, una persona come quelle di un tempo, come gli dei ancora prima, perché, altro e diverso figlio degli astri, andasse tra le stelle, ormai piccoli sassi scuri dispersi nell’oscuro vuoto, alla ricerca di una verità nella vita, alla ricerca del sogno e del mito. E costui, mentre guardava nel nero del proprio cuore più che nel nero del cosmo alla fine dei suoi giorni, proiettandosi nel mare di ciò che viene immaginato, verso altri Zeus e altri Ade, capitò lì, navigatore allo stremo, oltre i limiti della propria mortalità, dove dio, l’intuizione o la fantasia più irreale ti rivelano la realtà. Brandendo allora la verità quale spada, trafisse le tenebre dello spazio e del suo futuro e tornò ai verdi campi e alle distese azzurre che lo avevano generato.

<<Ed ora sono qui, perché l’eccezione è alle porte, lo strappo alle regole che è regola essa stessa ed è la porta per il vostro futuro, che è il presente.

<<Arrivò un bardo dalle stelle, tornando tra mari e valli e trovando valli di grigio sale e mari di oblio, si guardò attorno e se ne dispiacque. Si diresse dall’uomo e gli parlò con parole dolci, parlandogli del suo passato e del suo presente e donandogli la speranza, che è la realtà.

<<E lì, al cielo! Su! guardate! Il bardo ha appena finito di parlare di sé che la sfera di piombo comincia a ruotare e a brillare di azzurro splendore e piove acqua. Acqua. Siete allibiti, lo vedo, voi ridete! Quanto tempo, quanto tempo che gli uomini non sono più uomini! Perché voi lo vedete, fuori e dentro, che il mondo piove, che il corso si inverte. Torna il vapore fuggito nei millenni via dalla terra e vi si ricondensa in gocce, la sabbia torna pietra e la pietra torna roccia e monte, la polvere torna, placida ma inesorabilmente, erba e alberi e vita! L’uomo torna uomo perché è il cosmo che torna sui suoi passi, senza che lo stesso faccia il tempo. Quanto avevano sbagliato i nostri avi quando, dalle vette dei monti osservando il cielo e l’animo nostro, avevano predetto il destino e la fine dell’universo, nel vuoto e nell’oscurità! Vedete ciò che dico e piangete di gioia, come è scritto ed è giusto e le vostre prime lacrime, mai si vide cosa simile, spegneranno le fiamme di questo sole fasullo e riaccenderanno, nell’imponente ineluttabilità degli eventi, il vero sole attorno al quale già la terra si appresta a danzare in festa, per sempre e poi per sempre e per sempre. E danzate, danziamo assieme alla terra, nell’erba che sta nascendo, sotto la pioggia che laverà finalmente ogni sconforto dai nostri volti, ingiustamente cupi e vuoti per troppo tempo sotto l’ingannevole scure della morte!>>

Fu allora la danza dell’umanità, la più bella che mai si sia vista e che mai si vedrà. Persino gli dei, che mai si curarono delle faccende umane, scesero tra di loro e, assieme nel comune destino e nel comune tripudio, ballarono danze celesti, mano per mano con gli altri. Uno è da sempre l’invincibile nemico delle divinità, ovvero l’Ineluttabile, ed ora essi vedevano che era stato sconfitto.
Tutti guardavano e tutti vedevano, tra i coloratissimi voli degli immortali e le armoniose danze dei mortali, il mondo che rinasceva e con esso le speranze, che sono gli dei, e gli dei e il sapere, che è vita, e la vita.

Sola, al centro dei volteggi, dei cerchi in musica, del cosmo, della Roccaforte Celeste, era la Morte che non danzava, ma sorrideva solamente. E vedeva. Il suo sorriso aveva un che di materno e un qualcosa di malinconico nel rimirare tutta quella festa universale attorno a sé.

<<Certo che mi hai piacevolmente stupita, sai? Non ti facevo così romantico>> disse lei al Nulla lì fermo a contemplare il tutto quasi compiaciuto, quasi felice ed in qualche modo pensieroso, se mai fosse stato possibile al Nulla, appoggiato su un grumo di calce invisibile ai mortali, una persona come quelle di un tempo, come gli dei ancora prima.

E allora il mondo fece l’ultimo passo che gli era stato concesso: quell’intangibile e misera costruzione, nel silenzio totale, crollò e divenne invisibile anche agli occhi degli dei e la Roccaforte fu il mondo e il mondo fu la Roccaforte per un unico, lunghissimo, addirittura piacevole istante. E, quasi in risposta, egli si volto verso di lei e le sorrise per un’ultima volta, alzò le spalle e disse:

<<Che ci vuoi fare? Siamo fatti così.>>

E fu il nulla.

 

 

*Libro della Scienza, Cap. XXVII
**Libro della Fede, Cap IX
***Libro della Scienza, Cap. XXIV detto “Apologetico”

La storia, intima e breve, di una partenza

postato il 6 Set 2011 in Main thread
da VaMina

Soppesò il phon in una mano e il pentolino della ceretta nell’altra. Non sarebbero mai entrati entrambi e, in fondo, la ceretta è una cosa diabolica. Eccolo, il vincitore. Gettò con malagrazia il phon sulla pila di vestiti, chiuse la valigia e la fissò. Era di quelle che si usano come bagaglio a mano: compatta, ultraleggera, tante cose belle nella pubblicità, insomma. Non c’entrava nulla lì dentro. D’altronde, proprio quella volta, inutile lamentarsi, una valigia migliore non avrebbe aiutato, dato che non aveva idea di cosa le potesse servire. Stava iniziando a considerare l’idea di prendere uno zaino, infilarci un cambio di biancheria e basta, ma un suono persistente bloccò il pensiero disfattista sul nascere. Mentre si dirigeva verso il telefono che squillava già da un po’, afferrò il libro che stava leggendo. “ Mamma? Sì, sono quasi pronta. No mamma, non mi porto un panino. No, non penso che serva. Anche io vi voglio bene. Ciao.” Sospirò. La quinta maledetta telefonata della giornata. Non mancava molto, doveva sbrigarsi. I documenti li aveva già in borsa. La ossessionava quella sensazione strisciante, che penetra la mente, la carne, le ossa. Non la sensazione di aver dimenticato qualcosa. No, era la certezza che appena avesse varcato la soglia di casa, avrebbe sentito quel bisogno che domina le partenze. Il bisogno irrefrenabile di portare quel vestito che non hai messo in valigia, di sentire quel disco che non hai mai comprato, di vedere quell’amico senza il quale hai vissuto benissimo per tre anni, di stare nella cucina che detesti, sulla sedia che odi, a bere un caffè che bruci sempre. La sensazione che l’aveva sempre spinta a tornare in casa, le innumerevoli volte che aveva cercato di scappare. Uscita dalla porta, le era sempre mancato il coraggio di chiamare l’ascensore, di trascinarsi per le scale. Passò in rassegna le finestre, per la terza, quarta volta. Chiuse i cassetti e le ante degli armadi rimasti aperti. Non avrebbe dovuto chiamarlo, quella mattina. Gli altri li aveva sentiti tutti la sera prima, li aveva salutati, aveva augurato belle cose, ripromettendosi, niente telefonate, quel giorno. Ma non aveva resistito. Aveva fatto le cose con calma, aveva scritto un foglio pieno di parole e cancellature. Si era seduta a gambe incrociate, per terra, con le spalle al termosifone, come quando era ragazzina. Aveva alzato la cornetta con circospezione, fatto il numero, aspettato. Un bel respiro. Poi aveva accartocciato la pagina piena di inchiostro sensato e piuttosto ragionevole. Aveva urlato, pianto, insultato, tutto nei trenta secondi concessi dalla segreteria telefonica. Lo squallore dei gesti rituali, infantili, l’assaliva. Si spazzolò i capelli, spense le luci, chiuse l’acqua, il gas. Controllò il gas. Spinse i bagagli davanti alla porta. Chiuse gli occhi, fece mente locale. Era tutto pronto. Uscì tirando la valigia e chiuse a chiave.
Quando scese nell’atrio quasi tutti gli altri inquilini erano già all’esterno, sulle scale. Li raggiunse.
“Buongiorno a tutti”.
“Buongiorno, cara, si sente pronta?” Il suo vicino le fece cenno di avvicinarsi. Sistemò la roba con quella degli altri, accatastata in un angolo dell’ingresso, e si sedette accanto a lui. Si sentiva pronta? Sì. No. Forse. Cercava di non pensarci. Si sforzò di rispondere:
“E’ una bella giornata, vero?”
“Vero, vero. Ottima, per un avvenimento simile. Ha visto la signora del terzo piano?”
“No, perché?”
“Credo non l’abbia presa bene. L’ho sentita urlare.”
“E’ successo a molti.” Diede un’occhiata all’orologio. “Sta iniziando.”
I borbottii di tutti cessarono. Guardavano attenti davanti a sé.
Il loro palazzo non fu il primo ad essere colpito. Cominciò come una frustata, come una decisione presa all’improvviso, come un’idea lancinante. Il cielo si copriva di rosso, di blu, di colori sconosciuti, vorticavano, brillavano intensi. Venti opposti lottavano, strappavano i vetri alle finestre, le antenne ai tetti. Scoppi purpurei ribollivano in lontananza, le fiamme guizzanti che lambivano le stelle e il sole. L’asfalto si fendeva, crepe si aprivano scure e minacciose nel terreno, sputando fumi neri e violacei, simili al respiro di un drago che si annida sotto la terra da tempi lontani, impaziente, ora che vede la speranza di levarsi ancora una volta in volo. La più completa gamma dei suoni e dei rumori squarciava l’aria, rombi, sinfonie, grida, frastuoni. I palazzi tremavano squassati da spasmi irregolari e crollavano. Gli alberi si innalzavano come per un profondo sospiro e ricadevano gemendo nelle fosse, nelle nuove valli urbane. Le automobili si accartocciavano e si scioglievano, i lampioni si tuffavano nel fuoco. Una pioggia insistente cominciò a battere sulle fiamme, che annegavano, naufragavano, morivano, risorgevano. Schiere di nubi nere marciarono dagli angoli del cielo e, dopo essersi mischiate nel mezzo della volta celeste come armate nemiche che si scontrano furiosamente in battaglia, si saldarono ai fumi oscuri che sorgevano dalla terra, oscurando la vista. E poi, tutto finì.

Capitolo VI: Non accettare caramelle dagli sconosciuti

postato il 2 Set 2011 in Giocoaperitivo
da Banshee

Andrea non avrebbe mai potuto neanche sognare, nella sua mite vita di tutti i giorni, di doversi ritrovare a fare i conti con gli errori del più temerario dei suoi avi. Per giunta in una situazione così macabra e paradossale, nella quale era giunto persino a rinnegare e dubitare del primo fondamento dell’approccio con il diverso: la coscienza del proprio essere.
Così, in quel momento, avrebbe potuto asserire solo di trovarsi in una sorta di studio insufficientemente illuminato da un’abat-jour e da una finestrella dal vetro opaco, circondato da una decina di volti sconosciuti di uomini tanto anziani quanto apparentemente eruditi ed intenti ad osservarlo. Aderbale era riuscito ad estorcergli la verità intorno al luogo dove si trovasse l’agognata collana, ma a chi avrebbe giovato quest’informazione? Andrea fin ora non ne era neanche lucidamente a conoscenza, dal momento che la verità era sepolta nel suo inconscio corrispondente all’anima del nonno misteriosamente defunto. Come avrebbe dovuto muoversi? Aveva appena consegnato un prezioso tesoro nelle mani di inaffidabili sconosciuti? Se fino a quel momento aveva deciso di fidarsi del “Capo della confraternita degli Astrologi”, ora iniziavano a sorgergli innumerevoli dubbi.
Mentre il nostro protagonista si tormentava con quesiti di questo genere, entrò nello studio una donna dagli arruffati capelli bianchi ed il volto segnato da profonde rughe, che prese a fissarlo con sguardo spiritato, incuriosito eppur serissimo. Senza dire una parola si avvicinò lentamente a lui e, sorridendogli garbatamente, gli afferrò saldamente il polso per poi stendergli il braccio ed iniettargli in una vena, con una piccola siringa che teneva nascosta nell’altra mano, un dosaggio sub anestetico di quel che si può definire “siero della verità”. Andrea entrò subito in uno stato di para ipnosi, sudando freddo e avvertendo lievi e incostanti palpitazioni dettate dalla paura. “Se questi uomini fossero stati davvero interessati a sapere solo dove si trovasse la collana per nobili fini, non avrebbero indugiato oltre … ” : questo fu l’ultimo pensiero che gli stava scivolando nella mente prima di mettere a tacere la coscienza.
Aderbale aspettò pochi minuti per poi iniziare ad estorcere, a quella mente ricca di aneddoti e conoscenze del passato miste a quelle del presente, le vicende del passaggio della collana dell’immortalità dalle mani di Muzio (tale era il vero nome del nonno di Andrea) alla cassaforte del Palazzo Centrale dello Stato.

Così, sfruttando la propria persuasiva capacità dialettica, disse con il più pacato dei toni: “In questo momento tu sei vulnerabile e pronto a rivelarmi ogni dettaglio di cui ti domanderò. Neppur più un corpo possiedi, Muzio, ed ingannare il tuo giovane ed ingenuo nipotino è stato tanto semplice quanto la sua reazione scontata e puerile, e tutti l’avevamo già previsto. Non sono qui per parlarti di come io e le altre menti eccelse che mi circondano adopereremo quel che era il tuo prezioso gioiello, ma sappi solo che il possesso del suddetto coronerà centinaia di anni di ipotesi, studi ed infiniti calcoli. Risponderai a tutto ciò che ti chiederò pur andando contro i tuoi princìpi, è così?”

La voce di Andrea rispose: “Certo, sì.”

Compiaciuto, Aderbale continuò: “Ottimo, non mi sarei capacitato di una risposta contraria. Dal momento che tra un’ora e quarantotto minuti ti risveglierai e cesserò di avere il totale controllo della tua mente, mi affretto a chiederti quanto più. Bene, dunque, come entrasti in possesso della collana? Illustrami le dinamiche dell’evento, immagino fu un giorno speciale per te, di certo ricorderai molto.”
Fissando il vuoto davanti a se, l’ipnotizzato Andrea asserì: “Era il 25 aprile del 1893. Mia sorella Teresa, costretta a farsi monaca di clausura all’età di 18 anni, per merito, devozione e sacrificio era diventata la madre superiora del monastero. La precedente direttrice le lasciò in eredità la collana dell’immortalità -non ritenendo di poterla usare per scopi personali poiché aveva fretta di raggiungere il Signore e la beatitudine eterna- che custodì per soli due mesi poiché le minacce di morte ed i ricatti anonimi che riceveva quasi quotidianamente tramite missive portate da colombe notturne erano troppe. Sull’orlo della depressione mia sorella m’inviò una lettera nella quale mi disse che avrei dovuto farle il favore più grande della sua vita: custodire la collana al posto suo, anche dal momento che non considerava nessun’altra monaca all’altezza dell’incarico. All’alba di tre giorni successivi l’avrebbe gettata dalla finestra ed io sarei dovuto trovarmi lì per raccoglierla. Così feci. Tornato a casa la misi del baule dei gioielli di mia moglie, che conservavamo sotto il mucchio di vecchi manuali nel solaio, il punto più alto e inaccessibile della casa …


mi gira molto la testa … il solaio … l’almanacco di botanica, sul cofanetto … mi sento mancare … le chiavi … il letto …”

Andrea sembrava star fissando un ricordo con gli occhi sgranati, le labbra improvvisamente serrate in una smorfia di inquietudine, un braccio tremante ed il respiro affannoso tipico di un matto sull’orlo di una convulsione nervosa.
Aderbale, per niente scosso dalla reazione del giovane, cercò di mitigare la situazione in modo diplomatico: “Ecco, qui arriva la parte interessante. Su, da bravo, raccontaci della sparizione della collana e tra poco sarà tutto finito, ti lasceremo tornare alla tua vita e di aver fatto la nostra piacevole conoscenza ti parrà solo un sogno. Lo facciamo perché la scienza senza questo campione non avrebbe più possibilità di uscire dalla fase di stallo in cui si trova. E sai perché ci preme tanto ottenere proprio quella collana? Perché un tempo era nostra, e contiene l’unico esemplare di perla classificata da noi, nel ‘400, “Lambit S+”. Ci fermammo a capire che fosse introvabile in natura ed attribuimmo a combinazioni astrali il suo potere, quando oggi con il progresso scientifico potremmo razionalizzare il suo processo di conservazione della vita e analizzarne la composizione con precisione impeccabile. Ora ci dirai cosa ricordi fino alla sua perdita”.
Superato il panico, dopo una leggerissima iniezione di pochi millilitri di estratto di Valeriana in soluzione, Andrea proseguì con la sua estrema confessione in stato ipnotico: “M-m-mi svegliai di soprassalto alle 5 del mattino, bussavano insistentemente alla porta e così andai ad aprire. Ricordo che avevano dei volti così scuri … entrarono d-dicendo di essere della polizia e di dover fare un’urgente p-perquisizione . Io chiesi chi fosse stato a denunciarmi e dissi che ero un uomo pulito, che non avevo nulla da nascondere. Senza darmi retta proseguirono inoltrandosi nella mia dimora, e più sicuri di quanto non lo sarei stato io stesso se avessi voluto dare un’occhiata al mio patrimonio, si fiondarono su per la rampa di scale di marmo e raggiunsero il s-solaio. Aprirono il baule di mia moglie, che ignara di tutto dormiva come una lattante al pianterreno, rubarono la preziosissima collana che avevo in affidamento dal monastero e, dicendo che l’avrebbero dovuta custodire loro, la portarono via in fretta e furia.”
Aderbale annotava su un quaderno rilegato ogni singola parola che usciva dalla bocca della vittima di quella manipolazione. Sperando che la caducità dell’effetto del siero fosse simile alla ripresa dei sensi e la vividezza delle immagini oniriche verso il risveglio, esordì: “Non può finire così. Come sei venuto a conoscenza dell’attuale posizione del nostro gioiello? Com’è finita nello scrigno dello Stato? Presto andiamo, che l’effetto sta per svanire e di ulteriori sieri siamo a corto”
Andrea, che stava già riprendendo il controllo motorio di qualche articolazione, rispose: “In sogno. Dormii molto profondamente quella notte, perché tutto il giorno avevo ricercato informazioni sulla fonte principale del saccheggio in giro per la città, e mi ero dannato l’anima senza trarne alcuna conclusione. Avevo sognato il Palazzo Centrale dello Stato, ed una ragazzina che vendeva succo di limone in un piccolo chiosco proprio lì, quasi annesso alla porta principale. Vidi me nel sogno, dall’esterno come se mi trovassi in un quadro, mentre intingevo una stilo in un bicchierino di quell’aspro succo … allora ai primi chiarori dell’alba mi destai e corsi verso quel Palazzo, e lì dove nel mio sogno c’era il chiosco trovai una parete liscia e linda. Accesi un fiammifero per illuminare meglio quel che avevo intorno poiché a quell’ora del mattino di luce ce n’era ben poca. Notai subito che su quella parete all’avvicinarsi del mio fiammifero si scuriva qualcosa in modo discontinuo, non come quando bruci dell’intonaco, ma ecco si formavano dei simboli. Allora intuì che fosse inchiostro simpatico. Qualcuno aveva scritto un codice su quella parete, e si era servito solo di succo di limone per non attirare l’attenzione dei passanti all’indomani. Doveva essere un piano ben calibrato, ad ogni modo entrai e … sì, ricordo, salii le scale verso le sale private contenenti gli archivi. Avrei voluto tentare di arrivare alla cassaforte … fu temerario da parte mia, che sono un uomo così abitudinario … ma sragionavo per quel gioiello, per il suo luccichio, per la responsabilità del suo possesso. Spinto dalla fiducia che avevo nel vivido sogno di quella notte, stavo per consegnare il codice che avevo letto sul muro ai due funzionari di guardia per le porte del tesoro, quando qualcuno mi sparò alle tempie, alle mie spalle.”
Queste furono le ultime parole che Muzio pronunciò attraverso suo nipote, al che il suo corpo di quest’ultimo si svegliò e riprese coscienza, ora ignaro del vero carattere di quell’incontro e delle intenzioni di Aderbale. Quest’ultimo continuò a persuaderlo del fatto che il gioiello servisse a lui e agli altri per combattere la corruzione dello Stato e le scorribande dei pirati, persistendo nell’inganno. Quando il portavoce del gruppo degli eruditi si alzò, seguito dagli altri, si congedò dicendo: “Andrea, dobbiamo consultarci intorno le misure da prendere per affrontare la faccenda alla luce di queste nuove informazioni. Spero tu possa capire e attendere qui fino al nostro ritorno, che sarà al massimo tra una mezz’ora. Fuori c’è un mondo pericoloso, lo facciamo per te, qui sei al sicuro”.

La porta si chiuse alle spalle dell’ultimo uomo barbuto, e Andrea ci mise qualche ora a rendersi conto di esser stato ingannato e abbandonato in uno stanzino con scarso ossigeno e la porta blindata.

* * *

Salve! Non rispolveravate questo racconto da un po’ di tempo, eh? Spero vi piaccia questa mia versione dell’avventura o che almeno abbiate apprezzato il mio tentativo di continuarla! Gli altri capitoli mi sono piaciuti moltissimo, quindi mi sono proprio divertita a scriverne il VI.

Per i prossimi autori, gli argomenti saranno:
La malattia
La rivalsa
La solidarietà

Per veri arditi – parole e digressioni:
Psicolabile
Acme
Etilico
Placido
Strudel
Marino

Proprio per chi non ha altro da fare nelle sue giornate e vuole dimostrarsi eroico:
Far sì che il titolo sia un palindromo molto personalizzato. Nel senso che dev’essere un neologismo coniato da voi!
Scrivere tutto il post adoperando solo parole contenenti un massimo di tre vocali

Serial Killer

postato il 2 Set 2011 in Cazzi e mazzi personali
da Azazello

Mi sono spesso domandato che avrei fatto se mai mi fosse capitato di uccidere qualcuno (Dio non voglia) essendo imputabile per la cosa e mi sono risposto adesso: diventerei un assassino. Non un assassino professionista, di quelli che si fanno pagare per uccidere la gente, ma più un serial killer, dove “serial” implica l’uccisione sistematica di tutte le persone che desidero ammazzare. Ho una lista non esageratamente lunga, anche se sicuramente più di quanto non sia salutare per un essere umano sano di mente, e diversi programmi molto originali su cosa fare della mia eventualmente acquisita libertà da costrizioni morali. Alcuni si basano sulla forse non così assurda possibilità che decida di suicidarmi, tormentato dai sensi di colpa, dopo un certo periodo, ma non per questo sono meno validi.

Il più originale di questi progetti è sicuramente quello in cui, ormai esperto nell’arte dell’uccisione, della coercizione, del camuffamento e della sparizione, mi vedo usare le mie abilità per punire chi invece della morte merita la prigione, facendoli risultare in qualche modo colpevoli dei miei delitti. Il più ardito di questi programmi prevede di incolpare qualcuno del mio suicidio, figuratevi. Per quanto riguarda le vittime, non si tratta di persone che meritano la morte, che sarebbe in contrasto col mio principio che la morte non è una pena funzionale, ma di persone che desidero uccidere. Non so se riesco a rendere l’idea: il punto non è tanto che queste persone devono morire, ma che io voglio usare loro tanta di quella violenza tutta insieme che, purtroppo, non sopravviverebbero. Una persona di questo tipo è, per fare un esempio a caso, Mirko del centro amministrativo della Vodafone. Guardati le spalle.

Che mondo sarebbe senza la carta? Aka, il nuovo argomento

postato il 1 Set 2011 in Main thread
da Iroquis`

Come i più arguti avranno potuto sicuramente notare, il nuovo argomento è la carta. Anche al plurale.
Pensateci: come potreste guadagnarvi il pane senza la carta? Come potreste impiegare la vostra terza età senza andare con i vostri amici vecchi e rincoglioni a giocare per strada? Come potreste pulirvi il culo? Cosa vi sareste lanciati durante le ore di lezione? (to be continued)

 

Solo per veri eroi: aggiungere, a fine post, una vostra personalissima interpretazione su come sarebbe la vostra vita senza la carta.

Perché?

postato il 1 Set 2011 in Cazzi e mazzi personali
da Azazello

D’improvviso, tutte le cose intorno a lui furono ferme. Non se ne accorse subito, ma un passo alla volta, cominciando dal silenzio. Dapprima non sentì più la ventola del computer, il ronzio del neon, l’aspiratore dell’asciugatrice. Poi non vide più il lampeggiare del LED della batteria sul cellulare, il tremolio della luce nell’appartamento di fronte, il continuo ricambio di foto, parole e immagini sul suo schermo. Uscì dalla sua stanza e pur trovando il padre addormentato sul divano del salotto non ne udì il russare, né vide il ventre alzarsi e abbassarsi al passo col respiro sommesso di un uomo addormentato, non sentì il gocciolio del rubinetto in cucina né il gorgoglio dello scarico. Si guardò intorno, fermo al centro del salotto, e capì che quell’istante sarebbe durato in eterno.

Quindi, pensò.

Pensò alle cose passate che l’avevano portato a quel momento, agli errori cui non avrebbe posto rimedio, alle cose non dette e a quelle dette troppo presto, troppo tardi o troppo e basta, pensò alle persone che l’avevano accompagnato e a quelle che lo avevano abbandonato. Pensò alle gioie, alle delusioni, pensò alle speranze e al futuro, ormai sepolto tra i ricordi per cui non trovava più posto, e al presente, che durava da troppo tempo e, in effetti, non aveva mai accennato a finire. Capì che non sarebbe potuta andare altrimenti.

Si sedette e tornò ai volti dei suoi amori più appassionati, persone ormai perdute nei cunicoli delle cose mai accadute, dimenticate innanzi tutto da loro stesse, accantonate per fare spazio ad altri sé che, col tempo, di spazio non ne avevano trovato per lui. Di ciascuno si innamorò ancora, ancora sentì lacerarsi il petto per la tragedia del rifiuto e ancora li vide sbiadire, sparire, cambiarsi e cambiarlo.

Si alzò, camminando deciso verso la propria stanza, disseminata degli oggetti che l’avevano plasmato. Piega su piega e callo su callo, ognuno l’aveva segnato in qualche modo ed ognuno, complementare al suo marchio, era stato un insostituibile manovale nella sua costruzione. Odiò tutti quegli oggetti, ora così irrimediabilmente fermi, che nonostante i pomeriggi spesi insieme non avevano potuto portarlo altrove che lì, nell’assoluta immobilità, di fronte a se stesso e ai suoi rimpianti.

Si stese sul letto e osservò a lungo il soffitto, l’intonaco che non ne sarebbe mai caduto, le varie tonalità di grigio che gli conferivano la polvere e il gioco di luci e ombre creato dalla sua irregolarità. Fu inquieto. Lo sconforto si alternava alla rabbia ogni volta che si rigirava sulle coperte, preso da un’inspiegabile smania di essere, di tornare indietro, di correggere.  Era di fronte al sempre, tormentato dal vuoto irrisolto dei mai.

 

Poi chiuse gli occhi.

 

Si chiese se in fondo non avrebbe rifatto tutto allo stesso modo.

 

E si addormentò.

 

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