Philadelphia-L.A., sola andata.

postato il 9 Dic 2012 in Main thread
da Deluded Wiseman

 

 

 

Non ho mai avuto una vita “normale”. La mia vita è sempre stata dura, sporca, violenta e immorale. Ma almeno era la mia, e il diavolo sa se volevo che finisse a gambe all’aria, capovolta per sempre.

Sono cresciuto a West Philadelphia, nei sobborghi. Allora non ce ne fregava molto di studiare o lavorare per fuggire di lì, non avevamo idea dello schifo a cui andavamo incontro. Così passavo le mie giornate a bighellonare per strada, giocando con la palla. Qualche sera, se riuscivamo a non farci vedere, ci intrufolavamo nel cinema a vedere qualche pulp o qualche poliziesco. Dev’essere così che mi è venuta voglia di entrare in polizia… avessi saputo lo schifo che mi aspettava, avessi saputo che non sarebbe stato come nei film con Bogart, forse ci avrei pensato due volte.

Ma non si può dire che io non abbia fatto il mio sporco lavoro, diamine, questo no. Anzi, forse l’ho fatto anche troppo, a giudicare da com’è andata a finire la mia ultima indagine.

Inizia come tutte le notti, con un whisky e una paglia a casa, ascoltando la radio. Poi giù, via. Stavolta è al campetto da basket, quello fra la 15esima e Madison. Arrivo di soppiatto, e mi trovo davanti quello che aspettavo: la banda di Soapy ha un appuntamento importante, e io lo sapevo: le informazioni nelle bettole costano alcol e sangue, ma sono affidabili, e io so procurarmele.

E’ un incontro discreto: da lontano vedo solo Soapy, un paio di sgherri, e altri tre uomini che mi danno le spalle. So che si vedono qui perché è territorio neutrale per tutte le gang, ma non so chi siano gli altri. E continuo a non saperlo: avvicinandomi mi sono buttato dietro un cassonetto, e non vedo un beneamato. Però sento. Sento che si accordano per qualcosa di grosso: una partita di droga dal Medio-Oriente, pronta a inzozzare le strade per benevola interecessione di qualche testa di cazzo dell’esercito che ha ben pensando di arrotondare spacciando roba dall’Afghanistan. Vendendo questa roba quei segaioli di Soapy e dei suoi faranno un bel salto di qualità. Complimenti. Cerco di capire luogo ed ora, voglio essere lì ad aspettarli con qualche amico. Quello che invece non mi aspettavo, è una botta fortissima giusto dietro la nuca.

E’ quello che ricevo.

Forse sono stato un coglione a non immaginare che ci fosse qualcuno che controllava la zona, o forse no. Non ho il tempo di chiedermelo: ho giusto il tempo di vedere il bestione nero che mi ha offerto il primo giro, e poi me ne regala un altro dritto sul muso mentre chiama gli altri, e io smetto di vedere e capire. Sento solo l’asfalto ruvido e sozzo grattarmi la faccia, e rumore di pistole e coltelli sguainati. Urlano, mi vogliono fare secco. Cerco di rialzarmi, ma ricevo un calcio in pancia. Sputo sangue sul trench e sulle scarpe. Poi sento una voce, dice che ci devono andare piano, dice di darmi una lezione ma di non farmi tirare le cuoia, perché hanno bisogno di discrezione. Dev’essere l’altro stronzo, lo sconosciuto che ancora non riesco a vedere, e mi ha appena salvato la vita. Non mi salva dalla lezione: mi pestano di brutto per venti minuti, credo mi minaccino di mandarmi al Creatore, ma io ormai sono per metà da Belzebù, e neanche capisco quello che dicono. Alla fine qualcuno mi solleva sopra la testa, mi fa fare un paio di giri in aria e mi lancia contro il cassonetto. Urlano qualche altra cosa e se ne vanno, lasciandomi lì, ricoperto di sangue e sputi.

Non le ho mai prese così, mai.

“William, hai tirato troppo la corda”, mi dice il commissario qualche ora dopo “Alla prossima cazzata che fai, qualcuno ti ammazza. Vattene. Cambia città, ti possiamo trovare un posto. Ricomincia.” E se io fuggo con la coda fra le gambe, chi lo finisce il fottuto lavoro, qui? Forse lui o quei damerini culi lardosi della procura/qualche? Glielo dico, ma lui mi ignora. “Da cadavere non servirai per un cazzo. Non fare lo stronzo: c’è un distretto a Los Angeles, hanno bisogno di uomini. Aspettano solo te”. A quel punto, mi insospettisco, e iniziano a girarmi. So bene che chi fa onestamente il suo mestiere in polizia non va a genio molti politici con le mani immerse nel miele fino ai gemelli d’oro. Gli faccio: “Ma che premuroso. Non è che invece ho rotto le palle una volta di troppo a qualche alto papavero degli amici tuoi? Che mi dici, caro il mio commissario in carriera del cazzo?.”

Forse ho centrato il bersaglio. O forse gli ho dato del corrotto ingiustamente. Comunque sia, mi guarda male e mi dice di avere rispetto per chi vuole il mio bene, di levarmi dai coglioni prima che cambi idea e smetta di cercare di salvarmi la pelle, puttanate del genere. Dice che non ho scelta, che se non vado via mi sbatte a dirigere il traffico fin quando qualche sgherro non mi trova e non mi fa fuori sul posto. Francamente non lo ascolto. Probabilmente lui non c’entra niente, lo conosco da vent’anni e in fondo è un poliziotto onesto. Però sa, e ormai l’ho capito anche io, che questa volta ho pesato i piedi al figlio di puttana sbagliato, e rischio di compromettere, oltre al mio culo, anche il mio lavoro. Meglio non insistere.

Accendo la paglia, e capisco che è meglio sgommare.

Non lascio molto, qui a Philadelphia . Parenti non ne ho, e con gli amici di un tempo ho perso i contatti.  Con quelli che non si è portati via l’alcol, la droga, la mafia o il glorioso esercito degli Stati Uniti d’America, intendo. Al lavoro, non sono mai andato a genio a molti. Poco male,neanche loro andavano a genio a me. Un’ultima sbronza con i derelitti da  Franky’s, e sono pronto. Non saluto Charlene ,e probabilmente è meglio così anche per lei. In fondo, per me il lavoro era tutto, e se a Philadelphia per me non ce n’è più, tanto vale andare, e arrivederci a questa fogna senza troppi rimpianti. Non sono un sentimentale. Forse s’era capito.

Il problema è che io nella fogna ci sguazzavo a meraviglia. Sono nato lì, cresciuto lì, è lì che ho preso i primi pugni sul muso, ed è in quei vicoli che ho imparato a rispondere a ginocchiate nelle palle. Philadelphia, almeno la mia Philadelphia, è un posto di merda, chiariamo. Lurido, violento, insensibile. Ma non ha pretese di essere meglio di quanto non sia. Ed io sono fatto per lei, almeno quanto lei è fatta per me. Neanche io sono un tipino raccomandabile, ma non mi sono mai creduto diverso. Los Angeles, invece, è bugiarda. In mezzo ai lustrini, alle luci e alle feste, strisciano il crimine e la corruzione in tutte le loro forme. Con crimine e corruzione ci so fare, con i lustrini e le feste no. Odio gli ipocriti, e LA è probabilmente la città più ipocrita del mondo. Ci sono film di Hollywood molto più veri di Los Angeles.

Salgo in aereo e realizzo che, non so perché, ma mi hanno messo in prima classe. Facce belle, abbronzate e vuote; credo sia un’anteprima di quello che mi aspetta. Mi servono aranciata in bicchieri di cristallo, chiedo all’hostess se  posso avere un po’ di whisky in bicchiere di plastica, e le rido in faccia quando per un bicchiere mi chiede il prezzo di due bottiglie della riserva di Franky. Sarà orribile.

Uscito dall’aereoporto chiamo un taxi, e mi avvio sotto il dannatissimo sole della California verso la mia nuova vita, e guardando la città dal finestrino mi ricordo che L.A. e Hollywood non sono la stessa cosa. L.A. è anche ghetti di ispanici, gang di strada, droga nei parchi per bambini, miseria. Questo potrei gestirlo, è roba mia. Neanche il tempo di finire la paglia, e mi rendo conto che la cosa non mi riguarda: io non vado a Compton, non vado a Venice. Quando inizio a vedere i cancelli delle ville e i giardini vorrei dirgli di fermarsi, che questo non è il mio posto e sta sbagliando. Probabilmente mi prenderebbe per pazzo.  In fondo mi ricordo di averglielo detto proprio io entrando in auto:

“Portami a Bel-Air.”

E non conta quanto dello sciacquabudella infimo che ho nella fiaschetta dovrò mandare giù per sopportare l’idea. Gli dico l’indirizzo esatto, e lui mi ci porta. “Che sventola di commissariato”, penso mentre accendo l’ennesima paglia di una giornata che sta iniziando a sapere troppo di catrame persino per le mie abitudini. Il palazzo è pulito, sistemato, tranquillo; nessun via vai di teppisti in manette e volanti a sirene spiegate. Il mio commissariato puzzava di vecchio, di sigaro, di caffè. Questo odora di disinfettante. Bè, ormai che sono in pista, meglio ballare, e cercare di farci l’abitudine. Willy Smith, ispettore, distretto di Bel-Air. Suona strano.

 

Ualà

 

 

 

 

 

 

Chi siete? Cosa fate? Sì, ma quanti siete? UN FIORINO!

postato il 3 Dic 2012 in Main thread
da Spasko

L’era del digitale! L’era dei computer domestici anche per cucinarsi la colazione! L’era della pirateria! L’era dello streaming! Dove sto arrivando? Ai telefilm! Questo virus dagli effetti letali che si sta espandendo a macchia d’olio in tutto il mondo. Si sentono sempre più spesso frasi come “oh ma hai visto nell’ultima puntata quello che.. blabla.. CHEFFIGATA!”, oppure “mamma mia come è finita di merda questa serie…”, oppure ancora “ma hai visto che gnocca che è la tizia che sta con il cugino di secondo grado della zia del co-protagonista”.

Posso affermare a giusta ragione di non conoscere nessuno che non stia seguendo ALMENO un telefilm. Io per primo ne seguo 3 o 4, ed inoltre non esito a rivedermi le puntate di quelle serie che mi hanno riempito intere giornate di nullafacenza (o che mi hanno tolto preziose ore da dover invece passare chino sui libri).

Indubbiamente tra i lettori, ed ancora di più tra gli autori in questo blog, sono sicuro di trovare terreno fertilissimo affinché una tematica del genere possa suscitare interesse.

L’argomento che vorrei proporre non so se è definibile in una maniera sintetica, poiché si traduce in una, anzi… due domande: alla luce dei telefilm che sono passati con i loro fotogrammi davanti ad i vostri occhi strafatti, in quale personaggio vi potreste riconoscere? Ed inoltre, in quale telefilm vi piacerebbe vivere?

Esposto così può sembrare il classico tema di scuola elementare, e di sicuro verrò ricoperto di insulti per questa scelta (o anche per la mia esistenza, a seconda), ma magari può essere un buono spunto affinché tutti possano dire la loro…

Lo scioperato o la riappropriazione del capitale finanziario

postato il 21 Nov 2012 in Main thread
da Vobby

Guidati dal valoroso ******, detto il Rosso, famoso rivoluzionario di professione, il folto gruppo di Minatori si appropinquava alla casa di *****, noto Scioperato.
Era costui un individuo davvero particolare, che aveva scelto di vivere ai piedi di una collina, ai margini della civiltà, a causa di alcuni problemi di socializzazione: non si spiegava affatto perché la gente si ostinasse a lavorare qualcosa che non fosse la terra. Ai suoi occhi, in effetti, niente di diverso dal cibo, dal sonno o da altri bisogni basilari era degno di nota.
Il Rosso era amico di vecchia data della famiglia dello Scioperato, che si era distinta per alcune eroiche imprese compiute nei tempi andati, come quando diversi suoi membri di erano impegnati per scacciare dall’estremo occidente le multinazionali del carbone o in occasione della temibile invasione degli Sciacalli, avvenuta in seguito all’esondazione del fiume orientale, cui opposero strenua resistenza.
Le intenzioni del Rosso furono subito chiare: il suo proposito era di reclutare lo Scioperato in un’azione rivoluzionaria di cruciale importanza, destinata a cambiare le sorti della regione. Si trattava di una missione che sarebbe stata svolta da soli avanguardisti scelti, ovvero il gruppo dirigente del sindacato dei Minatori, il Rosso (la cui presenza era però richiesta anche su altri fronti di lotta) e lo Scioperato stesso.
Quest’ultimo, in principio, era piuttosto scettico: non aveva mai avuto remore nel vantarsi dell’eroismo dei suoi antenati, ma non ne aveva mai dato prova egli stesso. Il Rosso, tuttavia, insisteva nel volerlo includere, mosso da un’inspiegabile fiducia in lui.
Il richiamo dell’avventura prevalse. D’altro lato, essa si prospettava straordinaria, ed era impossibile non aderire alla giusta causa dei sindacalisti: il loro nemico, una potentissima banca d’affari proveniente dalle capitalistiche lande del Nord, si era impossessato dell’impresa pubblica M.O.M., Miniera d’Oro della Montagna, la cui gestione era precedentemente organizzata secondo i progressisti criteri della Mitbestimmung. I manager della Banca, corrompendo il burocrati locali e finanziando alcuni sindacati gialli, avevano dapprima diffuso perizie false sull’esaurimento dei filoni e, successivamente, sulla base di esse avevano convinto il governo a intraprendere la strada della privatizzazione, di cui si era ovviamente avvantaggiata, distribuendone la proprietà ai suoi soci. Appropriatasi della Miniera con l’inganno, la Banca aveva poi finanziato l’acquisto di nuovi, distruttivi impianti e macchinari altamente inquinanti, che avevano letteralmente divelto la Montagna permettendo comunque all’azienda di licenziare tre quarti dei dipendenti, incrementando ulteriormente i profitti. Infine, la Banca aveva speculato sull’attivo della miniera, vendendo derivati e cartolarizzando eventuali esternalità negative, piuttosto che reinvestire i profitti che in attività che avrebbero permesso ai Minatori licenziati di tornare a lavorare. I vari manager ormai si erano disinteressati della miniera, passando gran parte del loro tempo a contare le pile di denaro che continuavano ad accumularsi nei loro forzieri, che avevano imparato a conoscere a menadito, godendone avidamente.
Insomma, un gran brutto affare multimiliardario.
La faccenda forniva però un’inaspettata occasione ai nostri sindacalisti rivoluzionari: se fossero riusciti a violare il caveau della Banca, situato nella profondità della Montagna stessa, i cui cuniculi essi conoscevano come le loro tasche, avrebbero potuto impossessarsi di una ricchezza straordinaria, destinata a finanziare per decenni la lotta di classe nel paese.
Le difficoltà che i nostri eroi dovettero affrontare non possono essere raccontate in dettaglio, ma meritano almeno una rapida carrellata.
Durante il viaggio di andata verso la Montagna, essi si trovarono a dover combattere le temibili orde dei Crumiri (che certe saghe successive chiameranno “Crumiretti”), i quali continuavano a lavorare nelle montagne nonostante lo sciopero generale indetto dai sindacalisti rivoluzionari, ricevendo così piccoli favori dai padroni.
Grandi difficoltà ideologiche furono date loro dall’incontro con extracomunitari di colore, che pure continuavano a servire i padroni pur di ottenere un salario da fame, per nutrire le loro povere famiglie. I sindacalisti opposero loro una rocciosa resistenza.
Grandi problemi furono dati loro dagli Hippie, ecologisti profondi che vivevano nei fitti boschi nei pressi della Montagna, i quali riuscirono a trattenere a lungo i minatori, corrompendo il loro fiero spirito con le loro feste a base di liquori artigianali e cannabis, tutta naturale e coltivata indoor.
In tutti questi frangenti fondamentale fu il ruolo dello Scioperato il quale, inaspettatamente, seppe trovare un proprio ruolo risvegliando l’eroismo del suo sangue. Il suo aspetto innocuo lo tenne sempre alla larga di sguardi indiscreti, dandogli così la possibilità di reperire quante più informazioni possibili sui sistemi di difesa che la Banca utilizzava per proteggere il suo tesoro. Venne così a conoscenza di una grossa falla nelle difese informatiche della banca stessa, che avrebbe potuto fornire ghiotte occasioni di attacco da parte dei Minatori, se solo essi fossero stati abili a muoversi nella rete.
Essenziale si rivelò quindi l’alleanza con ****, un popolare giovanotto con la passione della pirateria informatica.
Fu lui a violare le difese che la Banca, troppo sicura di sé, da tempo dimenticava di aggiornare. Inutile dire che la sua partecipazione all’impresa contribuì non poco a rinsaldare l’alleanza fra le organizzazioni tradizionali di lotta e il mondo dei social network.
La vittoria dei Minatori, del Rosso e dello Scioperato sulla malvagia Banca d’affari diede i risultati sperati: come insegnano le appendici di saghe più recenti, il capitale di cui i minatori si erano riappropriati fornì effettivamente un sostegno non indifferente alla rivoluzione mondiale, consentendo di erigere più solide difese di fronte al Male che, presto, si sarebbe riaffacciato all’orizzonte.

E finalmente eccolo!

postato il 5 Nov 2012 in Main thread
da Lalla

Buonasera a tutti!

Dovete sapere che nell’ottocento gli Arabi non avevano ancora sviluppato veri e propri romanzi. Allora hanno pensato di tradurre quelli occidentali, così, tanto per imparare a farne di loro. I traduttori, però, si sforzavano di “adattare” le opere originarie al pubblico arabo. E, insomma, traducendo traducendo, un po’ come avviene giocando al telefono senza fili, creavano nuove storie che con l’originale avevano ben poco a che fare. Spesso solo un breve accenno di trama permetteva di risalire all’originale, quando il traduttore non riusciva, per incapacità o scrupolo di coscienza, a far passare l’opera per sua (già). Insomma, per farvela breve, pur di andare incontro al gusto del pubblico e alle esigenze meramente materiali dell’editoria poteva capitare che trasformassero romanzi di 1000 pagine in racconti di una ventina. O che eliminassero da Robinson Crusoe tutti i riferimenti alla morale calvinista, giusto per non far arrabbiare quei vecchi inturbantati. O, ancora, poteva capitare che fraintendessero il senso dell’opera, scritta in un contesto così diverso dal loro.

Vi starete chiedendo il perché di questa lezioncina. Ed eccovi la risposta: l’argomento del mese sarà “tradurre tradire”, ovvero le traduzioni appezzottate. Vi chiedo di fare vostra l’idea di un libro, di un film, un fumetto, un manifesto visto per la strada e crearne ciò che più desiderate.

In brevi semplici passi:

1)     Prendete un’opera, una qualunque: la Divina Commedia, Topolino, American Pie o QUALUNQUE altra cosa.

2)     Trasformatela in QUALUNQUE cosa vogliate. Non c’è alcun limite. La Divina Commedia potrebbe diventare una hit dubstep, Topolino un’opera lirica e American Pie un thriller.

Proporrei anche di non esplicitare l’opera originale.

Potremmo tutti cercare di scoprirlo!

 

Buon lavoro e buona lettura!

Death from above

postato il 18 Ago 2012 in Main thread
da Vobby

Fantasticare sul tema dell’esclusione mi ha portato a riflettere sulla condizione esistenziale dei cetacei. La frase appena scritta è idiota, mi rendo conto, ma pensateci un attimo: come deve essere trascorrere la propria intera, lunga esistenza sulla superficie di un mondo, nel quale ci si può sì immergere, ma mai a lungo, se non al costo di una morte certa e preceduta da una dolorosa agonia? Il mare è un ambiente in cui i cetacei possono cacciare, ma non respirare; questo secondo me li mette in una situazione del tutto particolare, che può portare a conseguenze interessanti nell’evoluzione delle specie.
Piccola premessa: non siate scettici leggendo di condizioni mentali dei cetacei, i loro cervelli sono i più grandi del mondo animale. Sono molto più stupidi di noi, ovviamente, ma fanno progressi, specialmente alcuni di loro. Specialmente alcuni fra i più fichi di loro, in effetti, come ad esempio le orche. Questi magnifici predatori hanno sviluppato un linguaggio che non solo è complesso, ma è anche verbale, e leggermente differenziato a seconda dei pod (il nome dei loro gruppi) e delle diverse aree geografiche.
Queste tre caratteristiche del linguaggio delle orche sono importanti. La verbalità della comunicazione infatti è il presupposto fondamentale per lo sviluppo di qualcosa che assomigli a una cultura. Per intenderci, con un ferormone puoi dire “scopami”, ma solo con un suono puoi dire che è stato proprio bello, spiegare perché e raccontarlo agli amici. La possibilità di raccontarlo è cruciale: significa che a ogni generazione i membri del gruppo si comporteranno in modo diverso non semplicemente in base a come il loro corpo si adatta alle condizioni ambientali, ma anche a seconda delle esperienze accumulate dal gruppo stesso! E le orche, pare, sanno farlo. Sanno dire dove si trovano le prede, come cacciarle. E mentre lo fanno si chiamano per nome. Per nome! In un mondo in cui non puoi usare il naso per sentire gli odori, non puoi semplicemente affidarti all’aspetto per distinguare gli individui fra loro. Devi usare dei nomi. Notevole no?
Inoltre: vivere in acqua ed avere un bel po’ di grasso in corpo significa poter andare ovunque, e infatti le orche lo fanno, e l’accoppiamento più o meno costante fra membri di diversi pod e diverse “popolazioni” evita la fioritura di sottospecie. Ma permette il continuo scambio di informazioni e la continua evoluzione del linguaggio. Al momento, per esempio, è stata documentata una sola orca capace di cacciare gli elefanti marini in un certo modo, muovendosi fra gli scogli e nascondendosi fra le alghe. Quanto ci metterà a insegnarlo ai suoi figli? E i suoi figli a raccontarlo in giro?
Tutte queste cose qui, di nuovo, sono di cruciale importanza per la formazione di una cultura e per il futuro della specie, perché saper pronunciare un nome, ricordarlo, associarvi determinate azioni compiute in passato, saperlo raccontare, sono tutte capacità sulle quali l’uomo ha fondato la nascita della storia, il senso del trascorrere del tempo.
Il senso della storia è alla radice di quel tipo di esclusione che è del tutto umana, cioè quella dalla contingenza. Con il racconto della storia l’uomo ha creato una propria linea temporale, partendo per la tangente dell’eterno cerchio che è il trascorrere del tempo nella natura. Nessun altro animale, a parte l’uomo, sa che sono esistiti membri della propria specie che hanno preceduto quelli che lui stesso a conosciuto, perché solo l’uomo è capace di associare dei nomi a delle azioni, e di raccontare come è andata. A questa esclusione dalla contingenza stanno incredibilmente approdando anche le orche.
Il punto d’arrivo del discorso dovrebbe essere che secondo me fra le orche, o almeno fra gli odontoceti, potrebbe sorgere una nuova specie dominante. Linguaggio e cultura non bastano, direte voi, e tanti primati sono almeno un po’ più intelligenti, e alcuni felini quasi altrettanto promettenti. Vero, ma a favore della mia tesi interviene l’esclusione. A me sembra che la dominazione di una specie su tutte le altre implichi la postura della prima su un piano completamente diverso dalle seconde: quando la preda homo si è ribellata, costruendo le prime lance e organizzandosi per usarle, ha smesso di lasciarsi cacciare. Ha iniziato a prendere tutto dal suo ambiente, senza dargli nulla in cambio. Da scimmietta a leone. Poi ha iniziato a distruggere l’ambiente, in effetti, con la nascita delle civiltà storiche, piuttosto che a vivere al suo interno. Da preda a predatore, da predatore a solitario dominatore. Alzandosi su due gambe ha iniziato a guardare il mondo dall’alto e ha avuto le mani libere per modificarlo a suo piacimento.
Nulla esclude che i prossimi a farlo siano gorilla o leoni, ma nel loro ambiente le orche hanno un vantaggio non indifferente: il loro mondo lo hanno sempre visto solo dall’alto e non potrebbero fare altrimenti. Non solo: non potendo respirare sott’acqua, loro sono già su un piano completamente differente rispetto alle specie con cui abitualmente interagiscono. Esistenzialmente, come si diceva, loro sono già “altro” rispetto al mare. E stanno già, da sempre, al suo apice. Per l’ultimo dei calamari come per il grande squalo bianco, le orche sono stranieri minacciosi. Minacciosi, perché cacciano tutto ciò che riescono a toccare. Stranieri, perché non nuotano mai al loro fianco.
Fuori dal tempo della natura, all’apice del loro spazio. Date loro qualche centinania di migliaia di anni: appena le orche saranno appena un po’ più consapevoli il mondo potrebbe veder nascere una nuova stirpe di veri dominatori.

Escluso!

postato il 5 Ago 2012 in Main thread
da Deluded Wiseman

Allora, allora, allora. Ci sono stati un po’ di casini, da queste parti, recentemente. Perlopiù imputabili proprio al sottoscritto, reo di aver dimenticato il proprio turno come mastro argomentante. Sfortunellamente, le mie peripezie come aspirante dotto del diritto mi hanno reso dimentico del fatto che, in questo spazio digitale il mio nome inizia per D, ma sono ben conscio del fatto che né questo né il linguaggio improbabile che ho deciso di adottare per disorientarvi potrà cancellare la mia colpa. Ad ogni modo, alla mia distrazione è seguita un, forse ancora più colpevole, ritardo dovuto un po’ al fatto che ormai c’era un argomento interessante in ballo che, visto il periodaccio, faticava a imporsi, in parte a sana pigrizia. Oh, vi giuro, non era solo pigrizia! Ad ogni modo, mi riproponevo di ripropormi col mio argomento il giorno 1 di agosto. Senonchè, sono partito. Chè, non lo sapevo che partivo? Massì, massì, in fondo lo sapevo; infatti dicevo “babbè, magari lo metto prima di partire”, però poi mi dicevo “ma che giorno è il 27 per mettere l’argomento? Che figura ci faccio, a mettere l’argomento il 27, dopo tutto ‘sto bordello?” Gira e rigira, è il 27, io sono sul traghetto per Messina, e l’argomento dov’è?
Boh, dov’è?
Hai mica visto l’argomento, tu?
Niente vidi, niente seppi.
Adesso son qui, nella natìa Partenope, pronto a droppare sulle vostre capocce abbronzate (pfff) il suddetto argomento.
Ma che giorno è il 6 per mettere l’argomento? Che figura ci faccio, a mettere l’argomento il 6, dopo tutto ‘sto bordello?
Chiedetelo a Bob Dylan. Niente vidi, niente seppi.
Ad ogni modo, qual è l’argomento? L’argomento è che, sì, io mi sono scordato di metterlo (sempre l’argomento, dico), ma oh! Uno si gira un attimo, nessuno che gli dica niente, si rigira e si trova un altro argomento già postato! Dico, dove sono i tempi del “Guarda, mister, che ci hai l’argomento da mettere che se no son cazzi”? I tempi del “Vabbè, aspettiamo fino alla prossima luna piena e poi lo saltiamo”? Niente, senza rispetto! Confesso di essermi sentito escluso, come quando si giocava al gioco del pallone e io facevo la bandierina del corner.
Morale della favola, da questa storia fatta di colpe mie (99%) e brutali esclusioni (1%, e difatti è già partito Occupy Cos), almeno ci ho ricavato l’argomento. Parlatemi un po’ di esclusioni, di tristi storie come questa, o come quella della bandierina del corner, o come quella del buttafuori che vi nega l’accesso all’aperitivo del Circolo del punto croce perché non siete abbastanza cool. Oppure, parlatemi di qualunque amenità vi susciti questa parola, esclusione, derivante dal latino ex-cludere (alto livello), altrimenti diventa la rubrica del post-adolescente traumatizzato.

In un batter d’ali

postato il 10 Lug 2012 in Main thread
da Vobby

Buio.
Respiro. Spingi, buio, spingi, buio, luce, spingi, luce luce, apri le ali.
Sbatti le ali, vola, fame, vola vola, fiore, vola, fiore, cibo, mangia.
Vola, sazietà, desiderio, cerca, cerca, vola, cerca cerca.
Vespa, paura, scappa scappa scappa, vespa, paura, scappa, vespa, paura, scappa scappa, lontano, desiderio.
Cerca cerca cerca, trovata, vola vola vola, presa, desiderio desiderio, amore.
Stanchezza, vola, fame, vola vola, fiore, cibo, stanchezza, stanchezza, vespa, paura, vola, stanchezza, vespa.
Dolore, vespa, paura paura, dolore, ves…

Della morte, della fine e dell’eternità

postato il 6 Lug 2012 in Main thread
da ad.6

[La fine è un argomento troppo bello per essere ignorato e quindi non lo farò. Questo sarà un discorso probabilmente disomogeneo sulla morte, sulla mia morte e sulla fine più in generale]

Nella nostra vita la morte è il momento critico per eccellenza. L’atto della nascita è infatti un processo graduale della non-vita verso la vita, senza che in effetti si possa ben distinguere dove finisce l’una e comincia l’altra. Ma la morte no, perché un attimo prima tutto funzionava (abbastanza), il cuore batteva e l’organismo si nutriva e un attimo dopo non più. E qui è la drasticità.
Altro aspetto è il nulla. O anche il passaggio dall'”io” al “…”. Questa è una cosa che va oltre la paura dell’ignoto, della paura del buio, dell’horror vacui: sono tutti casi in cui non tutto è ignoto, non tutto è oscuro, non tutto è vuoto, visto che permane la certezza di essere comunque presenti; no, è la paura del nulla cognitivo Berkleyiano, del fatto che il mondo scompaia perché siamo scomparsi noi, del fatto che venga meno la percezione che abbiamo di noi stessi. Questa è costante negli anni e, nonostante la nostra “coscienza” nel rinnovsrsi muoia e rinasca continuamente ed impercettibilmente, non ne siamo mai sprovvisti tanto da chiamarla “io”.
E proprio di questo sono convinto (nel limite del ragionevole dubbio), ossia del fatto che questo nostro Io, questa nostra coscienza non sia altro che il “sentire di sentire”, la percezione di percepire o il senso dei sensi. Non solo siamo infatti in grado di vedere, ma possiamo anche sentire che gli occhi stanno vedendo, il che porta ad un livello di consapevolezza che altri animali non hanno. Tuttavia questo conduce all’identificazione di questo nostro senso dei sensi, del fascio di sensazioni che il singolo organismo prova, con qualcosa di indefinibile e pieno di arroganti pretese metafisiche che chiamiamo “Io”. Il linguaggio non aiuta, ma dico: Io non credo di esistere. Non credo che quello che da sempre chiamo “io” esista veramente come un’entità autonoma. Più che altro sarebbe “l’ente che scrive alla tastiera è un corpo che agisce in maniera causale e probabilistica secondo meccanismi che gli permettono di percepire il mondo e di percepire la proprie percezioni”.
Detto questo, viene sminuito il concetto di “Io” ed affossata la domanda “cosa rimarrà di me?”.
Gente mi ha chiesto: “Ma allora cosa sono io?”. E bene o male questa è stata la risposta che ho dato, il che ha se non altro il pregio (a mio parere) di eliminare quell’incertezza che porta alla formulazione di risposte metafisiche più o meno inaccettabili. “Chi pensi di essere in realtà non esiste, è un’illusione, la materializzazione di processi percettivi e cognitivi”. L’io, come l’anima, sono materializzazioni.
È chiaro, in quest’ottica, che nulla sopravvive al corpo, il che, certo, non porta alcun conforto.
Tuttavia, arrivando a me, sento particolarmente mio e particolarmente vero (fino a una disperata prova contraria) il concetto biblico di “Vanitas vanitatum et omnia vanitas”, in chiave olistica. Devo morire e scomparire nel nulla, prima o dopo non fa una reale differenza, per ME. E se deve accadere prima i “perché” e i “se” non avranno senso. Davanti alla morte spererò, come spero, di continuare a vivere più a lungo possibile, perché così è fatto l’uomo e in tal senso agiscono gli animali in generale, ma mi aspetto di affrontare la cosa ragionevolmente. Molto. In un certo senso sono curioso di vedere come affronterò la morte, senza per questo essere impaziente. C’è tempo, quale che sia.

Concludo con qualche riflessione sulla fine.
Trovo la fine una cosa confortevole ed accogliente, orripilante e terribile. I miei incubi più ricorrenti erano esattamente questo: un continuo finire. Il contrasto, proprio degli incubi, mi dava un grande senso di angoscia e di terrore. Continuo a fare quei sogni, ma adesso li trovo solamente affascinanti e sgradevoli. La questione è che la fine è un suggerimento, un cenno, ma non fa parte del nostro mondo cognitivo. Nello spazio possiamo andare sempre oltre e quando non possiamo sappiamo di potere, oltre i limiti che riusciamo ad immaginare, se ci riusciamo; nel tempo conosciamo solo un inizio (il nostro primo ricordo, casomai) e in verità nemmeno quello, ma la fine non esiste, perché non la sperimenteremo mai. Tra le domande più frequenti dei bambini, oltre al classico “perché?” c’è l’ugualmente frequente “e poi?”. Non sappiamo bene cosa sia la fine, lo intuiamo, e la paura per ciò che termina è la stessa che abbiamo verso ciò che non conosciamo.
“E poi cosa ci sarà? C’è sempre qualcosa, dopo!”.
Però, passando al lato personale della questione, sono spaventato più dalla non-fine che dalla fine. Siamo esseri finiti e mortali e l’infinito (fattuale) ci è estraneo quasi quanto il nulla. L’unico modo di vivere una vita infinita credo sarebbe quella di viverla “finita a blocchi”, cioè vivendo cent’anni come cent’anni su cento e non come parte di un’eternità. Quello sarebbe veramente spaventoso, difficilmente sopportabile e in definitiva, dopo tantissimo tempo (che è sempre niente rispetto all’eternità), insostenibile.

Chi mi ha insegnato che Libertà è piccola e bionda

postato il 20 Giu 2012 in Main thread
da Vobby

Un secchione come me, appassionato di letteratura greca, che si tratti di quella arcaica come di quella classica, impegnato lettore di poemi epici e tragedie, appena ha appreso quale fosse il nuovo argomento del mese non ha potuto fare a meno di pensare al potente eroe Hercules, inquadrato durante le mitiche scene di allenamento con il satiro Filottete, suo maestro. Poi subito dopo a Mulan, nella parte altrettanto emozionante dell’allenamento, condotto dal giovane e aitante capitano Shang. Colpevolmente, devo ammettere di non aver pensato subito a Kung Fu Panda, nonostante fosse piuttosto ovvio (“vuoi tu apprendere il kung fu? Allora io sono il tuo Maestro!”).
Successivamente mi è venuto in mente Socrate, che rappresenta la figura ideale del maestro, immagine che ha attraversato tutta la storia occidentale, quella del sapiente, anziano e barbuto filosofo, coerente con i suoi insegnamenti fino alla morte, continuamente dedito al miglioramento e alla penetrazione dei suoi fortunati discepoli.
Da Socrate sono passato a pensare ad Eschilo, il primo dei tre grandi tragediografi, l’autore che i suoi concittadini, sopra tutti, ritenevano il migliore dei maestri, colui che aveva insegnato e diffuso le antiche virtù all’interno della polis.
L’età classica è maestra per chiunque decida di avvicinarvisi, inevitabilmente, e io stesso devo molto di quello che sono, e che so, alle sue tragedie. Ma non è Eschilo l’autore che preferisco.
Che cos’è l’età classica se non la sua tragedia? Che cos’è la tragedia se non il miglior mezzo di espressione e di insegnamento possibile, grazie al perfetto connubio fra gli spiriti e le potenzialità della lettera e dell’estetica? Con il dialogo e con la musica la tragedia insegnava, trasmettendo un messaggio che potesse toccare nel medesimo istante e con la stessa efficacia le corde della ragione e del cuore.
L’autore che preferisco è Charles Monroe Schultz, il quale era un tragediografo, non un poeta, sebbene quest’idea abbia avuto una certa eco. La poesia trasmette attraverso i versi, che possono descrivere immagini vivide, ma non possono rappresentarle. La tragedia mette in scena la vita con la sua plasticità. Il fumetto è eminentemente votato alla tragicità, perché rappresenta materialmente fatti e concetti, esattamente come farebbe un pittore, senza rinunciare al mezzo letterario.
I fumetti si leggono, eppure non sono dei libri più di quanto non siano dei quadri. Dovrebbe esistere un verbo apposito per descrivere la fruizione del tragico, che metta insieme l’osservazione dell’immagine e la lettura del testo. Mi chiedo ora se i greci dicessero di andare a vedere, o ad ascoltare, la rappresentazione teatrale.
I Peanuts sono incredibilmente tragici. Nel senso moderno, è evidente, ma anche in quello classico: cinquant’anni di pubblicazioni quotidiane hanno conferito agli episodi, continuamente ripetuti, seppur mai identici, la stessa potenza del mito, rappresentato nel rituale religioso e civico. Di sicuro, come sicuri sono l’estate e l’inverno, l’eroe subirà i suoi tormenti. Spesso dovrà morire. O almeno farà una gran bella caduta, quando Lucy gli sfilerà il pallone invece di tenerlo fermo. E perderà la prima, e l’ultima, e qualunque altra partita della stagione. E verrà abbattuto dal Barone Rosso, e subirà le minaccia di vedere la propria coperta gettata nella caldaia, e non riuscirà mai a conquistare l’affascinante pianista.
Il mito è racconto, talvolta allegorico, talvolta istruttivo, sempre ripetuto. Ha una funzione rituale, e a questa funzione assolvevano le tragedie antiche. Anche per questo Schultz è un grande tragediografo, perché la ritualità è una buona chiave di lettura per le sue strisce. Charlie Brown non vincerà MAI, perché il rituale catartico ed educativo richiede che lui perda. Può sembrare che lui abbia vinto, quanto effettivamente la sua squadra vincerà un paio di partite. La prima volta però la partita venne annullata, per vie di un affare di scommesse. Scommessa di Replica\Ripresa, l’ultimo Van Pelt, con Snoopy. 5 cent. Cosa ci compri oggi con 5 cent? Snoopy aveva scommesso contro, per inciso. La seconda volta il capitano della squadra avversaria, una bambina, gli confiderà di averlo lasciato vincere, per un misto di tenerezza e pietà.
La reiterazione della rappresentazione è una colonna dell’insegnamento, dal momento che infinite sono le sfaccettature dei sentimenti che è possibile provare. Charlie Brown, l’irragiungibile ragazzina con i capelli rossi, Patty che la vede e si dispera per la sua bellezza, con la quale non potrà mai competere, mi hanno insegnato molto su come ci si deve innamorare, e tutto su come ci si strugge.
Schultz è il miglior fumettista, fra quelli che conosco, ad interpretare il senso del tragico. Lo fa con inaspettata leggerezza, preferendo cullare l’anima guidandone dolcemente i movimenti, piuttosto che scuoterla. Eppure sa fare anche questo, e a volte lo fa.
Schultz è stato il maestro che ha dato una forma più vivida alle emozioni, ai sentimenti, al loro scorrere e al loro continuo riesplodere, diversi e uguali ogni volta. I suoi personaggi sono il micrococosmo interno di ognuno.
Altri insegnano altro, di altrettanto fondamentale. L’amicizia con una tigre, o com’è cattiva la gente.
La magia dei Caraibi, dell’Irlanda, del Sahara. La verità irriducibile che si trova ai margini dell’impero, e l’ottusità che regna al suo interno. Senza disdegnare un bel po’ di tette.
Fidatevi se vi dico che il fumetto dell’asino d’oro merita meno di quello di Apuleio solo perché non è l’originale. Nessuna parola non può essere migliorata venendo accompagnata da un disegno.
Se poi i disegni sono di Manara…

Et voilà!

postato il 4 Giu 2012 in Main thread
da freeronin

Ed eccovi servito, in ritardo e con un’introduzione di pessima fattura, l’argomento di questo mese

No, non il karate, bensì i maestri.
A volte ci imbattiamo in persone che, volontariamente o in maniera assolutamente casuale, ci danno insegnamenti che non dimentichiamo più, su piccole o grandi verità (ad esempio, il noto “non attraversare davanti ai pullman ché vengono fuori i motorini da dietro e non li vedi”, di mia nonna).
A volte non si tratta nemmeno di persone in cui ci imbattiamo, ma di persone che in un modo o nell’altro riusciamo a osservare e prendiamo a modello. Certo, è un’abitudine sempre meno diffusa, ma  credo non definitivamente tramontata: intimamente ispirarsi, almeno in qualche piccola cosa, a personalità più o meno folgoranti, nutrendo nei loro confronti quel particolarissimo tipo di affetto misto a timore reverenziale.
A volte nemmeno si tratta strettamente di persone, ma di personaggi, figure inventate. Sarebbe riduttivo dire che il maestro in questo caso sia creatore del personaggio, perché spesso, a partire da una frase che l’autore gli fa dire, o da un atteggiamento che gli fa tenere, il personaggio prende vita propria nella nostra immaginazione, e ha qualcosa da insegnarci.
Beh, se poi volete parlare del maestro di Karate Kid (o di Yoda, so che volete farlo) fate pure, sarà sicuramente costruttivo.

 

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