Della morte, della fine e dell’eternità

postato il 6 Lug 2012 in Main thread
da ad.6

[La fine è un argomento troppo bello per essere ignorato e quindi non lo farò. Questo sarà un discorso probabilmente disomogeneo sulla morte, sulla mia morte e sulla fine più in generale]

Nella nostra vita la morte è il momento critico per eccellenza. L’atto della nascita è infatti un processo graduale della non-vita verso la vita, senza che in effetti si possa ben distinguere dove finisce l’una e comincia l’altra. Ma la morte no, perché un attimo prima tutto funzionava (abbastanza), il cuore batteva e l’organismo si nutriva e un attimo dopo non più. E qui è la drasticità.
Altro aspetto è il nulla. O anche il passaggio dall'”io” al “…”. Questa è una cosa che va oltre la paura dell’ignoto, della paura del buio, dell’horror vacui: sono tutti casi in cui non tutto è ignoto, non tutto è oscuro, non tutto è vuoto, visto che permane la certezza di essere comunque presenti; no, è la paura del nulla cognitivo Berkleyiano, del fatto che il mondo scompaia perché siamo scomparsi noi, del fatto che venga meno la percezione che abbiamo di noi stessi. Questa è costante negli anni e, nonostante la nostra “coscienza” nel rinnovsrsi muoia e rinasca continuamente ed impercettibilmente, non ne siamo mai sprovvisti tanto da chiamarla “io”.
E proprio di questo sono convinto (nel limite del ragionevole dubbio), ossia del fatto che questo nostro Io, questa nostra coscienza non sia altro che il “sentire di sentire”, la percezione di percepire o il senso dei sensi. Non solo siamo infatti in grado di vedere, ma possiamo anche sentire che gli occhi stanno vedendo, il che porta ad un livello di consapevolezza che altri animali non hanno. Tuttavia questo conduce all’identificazione di questo nostro senso dei sensi, del fascio di sensazioni che il singolo organismo prova, con qualcosa di indefinibile e pieno di arroganti pretese metafisiche che chiamiamo “Io”. Il linguaggio non aiuta, ma dico: Io non credo di esistere. Non credo che quello che da sempre chiamo “io” esista veramente come un’entità autonoma. Più che altro sarebbe “l’ente che scrive alla tastiera è un corpo che agisce in maniera causale e probabilistica secondo meccanismi che gli permettono di percepire il mondo e di percepire la proprie percezioni”.
Detto questo, viene sminuito il concetto di “Io” ed affossata la domanda “cosa rimarrà di me?”.
Gente mi ha chiesto: “Ma allora cosa sono io?”. E bene o male questa è stata la risposta che ho dato, il che ha se non altro il pregio (a mio parere) di eliminare quell’incertezza che porta alla formulazione di risposte metafisiche più o meno inaccettabili. “Chi pensi di essere in realtà non esiste, è un’illusione, la materializzazione di processi percettivi e cognitivi”. L’io, come l’anima, sono materializzazioni.
È chiaro, in quest’ottica, che nulla sopravvive al corpo, il che, certo, non porta alcun conforto.
Tuttavia, arrivando a me, sento particolarmente mio e particolarmente vero (fino a una disperata prova contraria) il concetto biblico di “Vanitas vanitatum et omnia vanitas”, in chiave olistica. Devo morire e scomparire nel nulla, prima o dopo non fa una reale differenza, per ME. E se deve accadere prima i “perché” e i “se” non avranno senso. Davanti alla morte spererò, come spero, di continuare a vivere più a lungo possibile, perché così è fatto l’uomo e in tal senso agiscono gli animali in generale, ma mi aspetto di affrontare la cosa ragionevolmente. Molto. In un certo senso sono curioso di vedere come affronterò la morte, senza per questo essere impaziente. C’è tempo, quale che sia.

Concludo con qualche riflessione sulla fine.
Trovo la fine una cosa confortevole ed accogliente, orripilante e terribile. I miei incubi più ricorrenti erano esattamente questo: un continuo finire. Il contrasto, proprio degli incubi, mi dava un grande senso di angoscia e di terrore. Continuo a fare quei sogni, ma adesso li trovo solamente affascinanti e sgradevoli. La questione è che la fine è un suggerimento, un cenno, ma non fa parte del nostro mondo cognitivo. Nello spazio possiamo andare sempre oltre e quando non possiamo sappiamo di potere, oltre i limiti che riusciamo ad immaginare, se ci riusciamo; nel tempo conosciamo solo un inizio (il nostro primo ricordo, casomai) e in verità nemmeno quello, ma la fine non esiste, perché non la sperimenteremo mai. Tra le domande più frequenti dei bambini, oltre al classico “perché?” c’è l’ugualmente frequente “e poi?”. Non sappiamo bene cosa sia la fine, lo intuiamo, e la paura per ciò che termina è la stessa che abbiamo verso ciò che non conosciamo.
“E poi cosa ci sarà? C’è sempre qualcosa, dopo!”.
Però, passando al lato personale della questione, sono spaventato più dalla non-fine che dalla fine. Siamo esseri finiti e mortali e l’infinito (fattuale) ci è estraneo quasi quanto il nulla. L’unico modo di vivere una vita infinita credo sarebbe quella di viverla “finita a blocchi”, cioè vivendo cent’anni come cent’anni su cento e non come parte di un’eternità. Quello sarebbe veramente spaventoso, difficilmente sopportabile e in definitiva, dopo tantissimo tempo (che è sempre niente rispetto all’eternità), insostenibile.

L’ultimo racconto

postato il 6 Set 2011 in Main thread
da ad.6

L’immenso sole era rosso e nero il cielo senza stelle. I piedi dell’uomo calcavano con incedere lento e pesante il suolo polveroso e lo stesso facevano i sandali della donna e le scarpe del bambino e le gocce di una pioggia in un mondo senza nubi. E senza concedere alla terra il riposo e il conforto dovuti a una madre malata, il capo reclino ma vigile sulle lenzuola del tempo passato, l’uomo e i mille e mille come lui, con i loro leggeri passi sconfitti ma forti della propria rassegnazione, percuotevano la sabbia che, sollevata dal costone della collina, riempiva la vallata sottostante e il fiume, i cuori degli uomini e con essi il mondo intero, mutando tutto in sabbia.

Lì, circondata dai bruni colli da lontano giunti per adorarla, si ergeva immane e sconfinata la Roccaforte Celeste, ultima e più grande espressione dell’umano attaccamento alla terra, nelle ere che furono, alla quale lo straordinario castello, assieme alle aride colline, cingeva il capo, comico diadema per la decrepita reginella del cosmo.

<<Avanti, figliolo. Pochi passi, poche ore e saremo alla Celeste, tutti assieme come all’inizio dei tempi>> sospirò il padre rivolto al figlio mai avuto mentre arrancava assieme a tutti gli altri in incommensurabile carovana. “E allora l’Ultimo Re chiamò a raccolta le genti da ogni luogo e la terra rispose a lui unita e compatta preparando il carro verso i sentieri del sole”* si ripeteva la litania, quasi un inno sacro, ben più che un rituale magico, figlia di un mondo in cui finalmente la scienza era tornata a chiamarsi magia e in cui la religione non era più che un’ombra di ciò che fu, ormai rimasta senza speranza, che è l’unico Dio dell’uomo.

Così, sotto la magica calotta di piombo fuso che oscurava il cielo e preservava la terra, da ogni parte del mondo sulle cineree cime attorno alla Roccaforte Celeste confluivano i fiumi ultimi della vita che, curvi e vorticosi in perfetta simmetria, formavano con i loro plotoni di uomini un nuovo sole pulsante, a sfregio del suo ormai immobile fratello, e calmo e vivo le spire di questo avvolgendosi in maniera fluida ed incolore attorno alle antichissime pietre della Rocca “ch’è fine e fulcro per cui ruotano il tempo e la storia”**.

La Roccaforte Celeste, cuore e culla dell’uomo e degli dei, era loro rifugio nei periodi di maggior travaglio: narrano i testi di come vi si ripararono i secondi allorché furono primariamente sconvolti dalla nascita della vita (Quale vita? Nascere? Morire?) e del giorno in cui lo faranno i primi, parimenti sconvolti di fronte alla chiave dell’immortalità, che è il nulla. Ecco quindi il dono e il pegno, la promessa e l’imposizione dell’ultima cattedrale del cosmo: sarai dato alla luce, luce sei e nella luce svanirai come le ombre; l’essere dei non è un’aggiunta ma una privazione e dovrai dare in pegno una sola, effimera cosa: l’esistenza.
Così eccolo il baluardo della vita che non è più (né forse è mai stata) speranza accogliere in sé le ultime lacrime dell’uomo e rifulgere di queste. Ogni uomo è lì lacrima dei propri occhi perché gli occhi ormai non potendo piangere sono sostenuti dai monti e dalle nubi che, non potendo confortarli, soffrono e piangono per loro.

La polvere in prossimità del centro del sole viene calpestata da passi di donna. La donna cammina portando in braccio la figlioletta, la quale non emette suono né può (né vorrebbe) spostare la polvere che fa da silenziosa cappa al mondo: non esiste.

<<Rimira l’alta dimora dell’Ultimo Re, figlia mia>> fu la frase che disse, gli occhi al suolo di ruggine, la donna rivolta alla figlia che non aveva. E la donna stessa, in altri tempi, sarebbe stata chiamata duchessa se non fosse stata uguale, nell’estremo frangente, a tutte le altre donne. E sarebbe stata detta donna se in quegli ultimi attimi, alla fine del mondo, tutti gli uomini non fossero uguali, in cammino nella polvere. Fu così che il magro profilo, senza ricevere risposta alla domanda che non aveva fatto, entrò.

Ma, voi, guardate l’edificio celeste le cui fondamenta furono poste dalle immortali braccia degli dei antichi! Voi che potete, prostratevi dinnanzi alla gloria della magia che ancora tiene assieme la terra con la terra e l’uomo con l’uomo! Le mura svettano dal suolo tanto massicce e tanto estese da parere non meno di un altro suolo e di un’altra tutt’altro che indifferente tessera del cosmo; tuttavia sono così leggere e così fini da sfidare l’aria ed il vento ad attraversarle senza che nessuno dei contendenti ne risenta minimamente. Costole e braccia e ossa del pianeta, erano inizio e fine e pura luce. Ma quale meraviglia nell’occhio indagatore nel vedere che, quale ultima effige del mondo in rovina, anche la Celeste rovinava! Quale sgomento nel notare le crepe nei muri, gli intonaci scrostati, gli arazzi in polvere, i gradini scheggiati, le torri senza camminamenti né guardie, le guglie spezzate! Quale indicibile dolore e malinconia nel trovare l’atrio freddo e muto dove una volta erano calore e gradevole musica, la luce debole e soffusa, gli scaloni principali divenuti ormai un’unica salita verso il primo salone attraverso la sola anta rimasta ad una porta ch’era d’oro e diamante! Quale parola potrà dire come le sale siano diventati corridoi, una volta crollate le divisioni tra queste, come le porte assi di legno e i soffitti pavimenti? Questo rende la Città del Cielo impareggiabile tra le creature concepite! “Specchio e immagine immortale dell’universo”, riassume in sé le fratture e i tormenti e gli spasmi ultimi del mondo ed è in questo che compie veramente se stessa e si completa, perché le fessure e le crepe e le mancanze sono tante e tanto aerei e fini i muri e le costruzioni che più non è dato, nella sabbia che vortica come un tempo vorticavano i pianeti attorno al sole, distinguere la parete dalla finestra o il vetro dalla luce, la luce dal vetro. Impossibile ormai per lo sguardo disattento, umano, discernere il dentro dal fuori, questa la prima vittoria della Roccaforte Celeste, la quale ingloba in sé il nulla e il tutto, insieme come ai primordi. La prima, lo sguardo dell’uomo. La verità, ancora visibile, in quegli istanti, solo agli occhi degli dei, era il permanere, intatto, di un unico, invisibile muro grazie al quale, ai loro stanchi occhi, pareva ancora esistesse una Rocca distinta dal Mondo. All’interno, dunque, ecco il compassionevole sorriso quando, dopo gli atrii e gli scaloni e i corridoi e i soffitti, si giunge alla sala reale dell’Ultimo Re, dell’uomo e del cosmo. Era lì che vestiva una corona spezzata e, quale estrema gemma, con la Celeste, vestiva da corona al mondo. Quasi più che figura, egli sedeva sul trono che fu dei suoi padri, di grandezza spropositata lo faceva sembrare un bambino, ramoscello in mano e sterpaglia sul capo da poco immerso tra i fiori del campo erboso, giocando a fare il re. Quale spettacolo, allora, sul suo trono senza schienale e senza braccioli, senza tessuti e velluti, vedere una tale schiera di piccole formiche tornare in una casa ormai per loro indistinguibile dal mondo, tornare da lui, tornare sotto lo sguardo degli dei ormai da troppo tempo silenti nel loro rifugiarsi dalla vita! “A mirar siffatta, composta turba non sarà tuttavia spettacolo alcuno, ché spenti saranno gli occhi dell’uomo e gli occhi di dio, gli uni per sempre, gli altri da sempre e per sempre***”.

Entrati che furono tutti, nei mesi, nella sala del trono, l’Ultimo Re sollevò il pesante braccio ricoperto di stracci così smuovendo la cenere accumulata dallo scorrere inarrestabile dei secondi, aperse la bocca e da questa uscirono parole di polvere che lentamente si adagiò al suolo. Uno solo poté udire quello che l’uomo non poteva aver detto coi suoni. Fece il suo ingresso.

Chiamato dal Re, entrò nella sala vestito di compatta polvere che appariva come luce una persona come quelle di un tempo, come gli dei ancora prima, con le iridi del colore del cielo profondo. E lo sguardo calmo e comprensivo, esile l’alta figura ma solida come i monti. Sorrise e le tenebre, benché inesorabilmente attanagliate attorno al morente cuore del mondo, abbandonarono per un istante gli occhi degli uomini che finalmente lo videro.

<<Eccomi a voi>> e le parole, normalissime ma belle come le cose che svaniscono nel tempo e nello spazio senza lasciare traccia di sé, riscossero i loro cuori dagli abissi, un’ultima volta.

<<Siamo qui per narrarvi una breve storia ciclica, la vostra e la nostra storia, di come nacque il mondo che conosciamo e di come non finirà, delle leggi che lo regolano e dell’eccezione, che è legge e speranza dei vivi e degli immortali. Ascoltatemi e guardate ciò che dico, di modo che il mio verbo sia per voi la luce, perché ormai è il tempo delle tenebre.>>

Con tali parole cominciò lui e loro iniziavano ad ascoltarlo con la noncuranza del vento. Li guardò, allora, illuminandoli della propria inspiegata forza e narrò del principio dell’universo, della fiamma, del tremendo rumore, dei colori, della vita, dell’uomo, della magia, della scienza, della magia, nuovamente. Ad ogni parola, ad ogni sillaba, risuonava di più il cristallo dei cuori degli astanti, dell’umanità, e di più questi abbandonavano il tramonto per poter immaginare l’alba.

<<Ed ecco che l’uomo, casuale inabitante del giardino di dio, colse l’ultimo barlume di ragione in una mente ormai allo stremo e comprese che il mondo andava morendo: spente sarebbero diventate le stelle e freddo tutto ciò che è, l’erba polvere e le piante e i viventi e tutto sempre e solo indistinguibili e radissimi granelli di polvere. Aveva inoltre compreso che, sebbene il mondo fosse stato in costante declino fin dalla nascita, tuttavia il sapere umano era non dissimile dal sole nel suo corso, il quale prima sorge e già esulta per la propria vittoria sul mondo quand’ecco che ormai declina e si spegne, e allo stesso tempo compresero che inevitabile sarebbe stato il tramonto della scienza. Allora, sfruttando di questa l’attimo di massimo fulgore, si adoperarono affinché, quand’anche il sole e le stelle fossero morte, il pianeta potesse continuare il suo viaggio disperato nel vuoto, sfruttando le ultime, esigue energie dell’universo. Poi che il sole ebbe posato finalmente il capo tra le eque braccia del nulla e con esso, già da ere, la creatività degli uomini e l’anima della scienza, si mise in atto il grandioso programma degli antenati, senza che ormai nessuno potesse comprenderlo, e fu costruita, o forse rivelata, la Roccaforte del Cielo e innalzata dall’antico sapere la magica e plumbea coperta che è culla e capezzale alla terra e all’uomo. Fu subito il momento di inviare, secondo quanto ultimamente disposto, una persona come quelle di un tempo, come gli dei ancora prima, perché, altro e diverso figlio degli astri, andasse tra le stelle, ormai piccoli sassi scuri dispersi nell’oscuro vuoto, alla ricerca di una verità nella vita, alla ricerca del sogno e del mito. E costui, mentre guardava nel nero del proprio cuore più che nel nero del cosmo alla fine dei suoi giorni, proiettandosi nel mare di ciò che viene immaginato, verso altri Zeus e altri Ade, capitò lì, navigatore allo stremo, oltre i limiti della propria mortalità, dove dio, l’intuizione o la fantasia più irreale ti rivelano la realtà. Brandendo allora la verità quale spada, trafisse le tenebre dello spazio e del suo futuro e tornò ai verdi campi e alle distese azzurre che lo avevano generato.

<<Ed ora sono qui, perché l’eccezione è alle porte, lo strappo alle regole che è regola essa stessa ed è la porta per il vostro futuro, che è il presente.

<<Arrivò un bardo dalle stelle, tornando tra mari e valli e trovando valli di grigio sale e mari di oblio, si guardò attorno e se ne dispiacque. Si diresse dall’uomo e gli parlò con parole dolci, parlandogli del suo passato e del suo presente e donandogli la speranza, che è la realtà.

<<E lì, al cielo! Su! guardate! Il bardo ha appena finito di parlare di sé che la sfera di piombo comincia a ruotare e a brillare di azzurro splendore e piove acqua. Acqua. Siete allibiti, lo vedo, voi ridete! Quanto tempo, quanto tempo che gli uomini non sono più uomini! Perché voi lo vedete, fuori e dentro, che il mondo piove, che il corso si inverte. Torna il vapore fuggito nei millenni via dalla terra e vi si ricondensa in gocce, la sabbia torna pietra e la pietra torna roccia e monte, la polvere torna, placida ma inesorabilmente, erba e alberi e vita! L’uomo torna uomo perché è il cosmo che torna sui suoi passi, senza che lo stesso faccia il tempo. Quanto avevano sbagliato i nostri avi quando, dalle vette dei monti osservando il cielo e l’animo nostro, avevano predetto il destino e la fine dell’universo, nel vuoto e nell’oscurità! Vedete ciò che dico e piangete di gioia, come è scritto ed è giusto e le vostre prime lacrime, mai si vide cosa simile, spegneranno le fiamme di questo sole fasullo e riaccenderanno, nell’imponente ineluttabilità degli eventi, il vero sole attorno al quale già la terra si appresta a danzare in festa, per sempre e poi per sempre e per sempre. E danzate, danziamo assieme alla terra, nell’erba che sta nascendo, sotto la pioggia che laverà finalmente ogni sconforto dai nostri volti, ingiustamente cupi e vuoti per troppo tempo sotto l’ingannevole scure della morte!>>

Fu allora la danza dell’umanità, la più bella che mai si sia vista e che mai si vedrà. Persino gli dei, che mai si curarono delle faccende umane, scesero tra di loro e, assieme nel comune destino e nel comune tripudio, ballarono danze celesti, mano per mano con gli altri. Uno è da sempre l’invincibile nemico delle divinità, ovvero l’Ineluttabile, ed ora essi vedevano che era stato sconfitto.
Tutti guardavano e tutti vedevano, tra i coloratissimi voli degli immortali e le armoniose danze dei mortali, il mondo che rinasceva e con esso le speranze, che sono gli dei, e gli dei e il sapere, che è vita, e la vita.

Sola, al centro dei volteggi, dei cerchi in musica, del cosmo, della Roccaforte Celeste, era la Morte che non danzava, ma sorrideva solamente. E vedeva. Il suo sorriso aveva un che di materno e un qualcosa di malinconico nel rimirare tutta quella festa universale attorno a sé.

<<Certo che mi hai piacevolmente stupita, sai? Non ti facevo così romantico>> disse lei al Nulla lì fermo a contemplare il tutto quasi compiaciuto, quasi felice ed in qualche modo pensieroso, se mai fosse stato possibile al Nulla, appoggiato su un grumo di calce invisibile ai mortali, una persona come quelle di un tempo, come gli dei ancora prima.

E allora il mondo fece l’ultimo passo che gli era stato concesso: quell’intangibile e misera costruzione, nel silenzio totale, crollò e divenne invisibile anche agli occhi degli dei e la Roccaforte fu il mondo e il mondo fu la Roccaforte per un unico, lunghissimo, addirittura piacevole istante. E, quasi in risposta, egli si volto verso di lei e le sorrise per un’ultima volta, alzò le spalle e disse:

<<Che ci vuoi fare? Siamo fatti così.>>

E fu il nulla.

 

 

*Libro della Scienza, Cap. XXVII
**Libro della Fede, Cap IX
***Libro della Scienza, Cap. XXIV detto “Apologetico”

Quanto mi ci sto impallando!

postato il 20 Dic 2010 in Senza categoria
da Azazello

Soprattutto l’inizio mi arcisballa 8)

Chi ci legge?

postato il 16 Dic 2010 in Cazzi e mazzi personali
da Azazello

In base ad un’analisi che non ho fatto, ma che se avessi fatto, possibilmente su dati che supportassero la mia tesi, avrebbe portato alla stessa conclusione, sono giunto, appunto, a una conclusione, ovvero che chi viene informato della scrittura dei post sul blog è, ovviamente, chi ci legge di meno (se postiamo poco come in questi giorni). Cosa significa questo? significa che tutti quelli che vengono informati su fb o dal feed RSS, ovvero presumibilmente i nostri amici/parenti/conoscenti, ci leggono solo quando scriviamo, mentre quel centinaio di persone che da qualche giorno a questa parte sembra leggerci più o meno costantemente no. Questo può significare alcune cose:

  1. Queste persone non sono sempre le stesse, ed è ragionevole pensarlo per una serie di motivi, primo dei quali il fatto che in tutto il blog ci saranno 3 commenti di persone che non conosciamo a cui non è stato chiesto espressamente di commentare (per i lettori abituali: questo non è bello! se commentaste noi saremmo tanto più felici e tanto più grati e vi potremmo pagare tanto di più!). Questa è la possibilità più triste, perché significa che un discreto numero di persone ci trova per qualche ragione, non è contenta di quello che legge e se ne va (anche se il notevole incremento di lettori nell’ultimo periodo farebbe sospettare che, forse, a una componente di chi arriva per sbaglio piacciamo)
  2. Queste persone sono più o meno le stesse n > 100 e una componente di queste viene ogni giorno sul blog (nel senso che un numero approssimativo di persone casuali fra le 200 ci visita, non che le stesse 100 ci visitano ogni giorno e le altre 100 no), il che spiega comunque la variabilità (un giorno ne vengono di più e uno un po’ di meno) ma non tiene in conto la possibilità che ci sia correlazione tra la pubblicazione di un nuovo post e le visite, cosa che invece ci aspettiamo, soprattutto visti i numerosi canali attraverso cui comunichiamo questa cosa (due)
  3. (questa è quella vera, a prescindere dai dati e da qualsiasi speculazione io possa aver fatto) Queste persone sono composte in parte da chi ci legge di solito (o comunque sa della nostra esistenza), che a sua volta è diviso in chi è iscritto al feed o ci legge solo quando vede l’aggiornamento su fb e chi controlla manualmente con una certa frequenza (che può essere anche una volta al mese), e in parte da chi non ha mai sentito parlare di noi e ci trova per sbaglio, magari cercando “squallore” su Google, alcuni dei quali restano e altri dei quali vanno. Ovviamente in questo caso (che, come ho detto, è quello vero) è piuttosto difficile stabilire qualcosa dai dati che abbiamo, specie considerando che io i dati non li ho analizzati e sto inventando tutto.

Conclusione: questo post non dice niente, ma non lo fa per errore. In realtà l’ho scritto solo per vedere se avrebbe fatto aumentare le visite, visto che ultimamente postiamo di rado e ci sono dei picchi di visite nei giorni in cui lo facciamo (o vicino agli stessi). xd

Questo non è un post sui würstel

postato il 10 Dic 2010 in Main thread
da ad.6
Würstel! Ecco tutto quello che avreste voluto sapere su di loro:
1) La gente non sa pronunciarne la parola (e spesso dicono “wrustel”);
2) Si mangiano;
3) È, per qualche ragione davvero misteriosa, associato all’asta, come ci consigliava Cerbs poco tempo fa;
4) Per chi avesse ancora qualche curiosità: http://it.wikipedia.org/wiki/Würstel.
Ok, molto divertente. E poi? Nulla. Ovviamente nulla di quanto mi venga in mente (di degno di essere scritto). Vi potrei informare sul suo utilizzo teutonico, sui conservanti che si usano per questo alimento, sul fatto che si possono bollire o fare alla piastra o mangiare crudi come qualcuno anche fa. Ok, ma poi? Vanno bene col pane, ad alcuni piacciono col ketchup, ad altri con la maionese, ad altri ancora con entrambi. Non posso scrivere di avvenimenti notevoli che abbiano questo genere di alimento come protagonista, non posso scrivere di questioni filosofiche o morali (veramente) attinenti. Potrei parlare del simbolismo associato, ma parlando dei simboli andrei sicuramente fuori contesto (a parte che non lo farei comunque :D). Ma potrei sicuramente scrivere un post “creativo” e riscrivere il Signore degli Anelli mettendo sempre “Würstel” al posto di “Sauron”. Sarebbe un post sui würstel?
Invece potrei dire che sarebbe interessante (giusto?) che questo argomento avesse avuto un’introduzione o che comunque prima o poi si possa leggere cosa ne pensa Nix, che l’argomento lo ha scelto.
E poi, visto che stiamo parlando di “Würstel”, chi sa perché mi ricorda tanto “Cioccolato” e “Gobbi”, anche se con le dovute differenze, soprattutto a livello immaginifico.
Bene, bello. Ma questo è un post sui würstel?
 

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