E solo il silenzio…

postato il 18 Mag 2012 in Main thread
da Vobby

Devo ammettere che non conosco abbastanza queste due canzoni per commentarle seriamente, e che non conosco abbastanza la musica in generale per commentare alcunché. Però sono una buona scusa per postare finalmente anche su Alabama! Poi sulla fine conto di scrivere altro, restate sintonizzati.

La fine di Gaia

Povera Gaia
anche i Maya vogliono la tua taglia
pure la massaia lo sa, per la fifa tartaglia
decifra una sterpaglia di codici ma il 20-12
non incide se non nei cinematografi.
Uomini retti che sono uomini rettili
con pupille da serpenti
più spille da sergenti
vogliono la tua muta, Gaia
ti vogliono muta, Gaia
la bomba è venuta a galla adesso esploderà.

Reti di rettiliani, andirivieni d’ alieni
velivoli di veleni, tutti in cerca di ripari ma

La fine di Gaia non arriverà
la gente si sbaglia
in fondo che ne sa.
E’ un fuoco di paglia
alla faccia dei Maya e di Cinecittà.
La fine di Gaia non arriverà!
La fine di Gaia non arriverà!

Anche E.T. è qui, mamma che condanna!
E’ un pervertito, ha rapito Gaia per fecondarla
con alieni adepti che scuoiano coniglietti
e li mostrano alle TV spacciandoli per feti extraterrestri.
C’è chi vuole farsi Gaia con fumi sparsi in aria
da un aereo che la ingabbia come all’Asinara.
Si narra che gaia sniffi,
abbaia anche Brian Griffin.
E’ Clyro come i Biffy che gaia Gaia non è.
Tra San Giovanni, Nostradamus e millennium bug
sulla sua bara chiunque metterebbe una tag.

Ma la fine di Gaia non arriverà
la gente si sbaglia
in fondo che ne sa.
E’ un fuoco di paglia
alla faccia dei Maya e di Cinecittà.
La fine di Gaia non arriverà!
La fine di Gaia non arriverà!

Né con i passi di Godzilla né coi passi della Bibbia,
Gaia sopravviverà
a questi cazzo di asteroidi che non hanno mai schiacciato
neanche una farfalla.
Sei tu che tratti Gaia come una recluta a naja
ami il petrolio ma la baia non è una caldaia
la tua mannaia lima l’aria mica l’Himalaia!
Gaia si salverà, chi salverà il soldato Ryan?

Non i marziani ma te dovrò respingere
non i marziani ma te dovrò respingere e vedrai..

La fine di Gaia non arriverà
la gente si sbaglia
in fondo che ne sa.
E’ un fuoco di paglia
alla faccia dei Maya e di Cinecittà.
La fine di Gaia non arriverà!
La fine di Gaia non arriverà!
La fine di Gaia non arriverà!
2012: nemmeno un temporale!

Noi non ci saremo

Vedremo soltanto una sfera di fuoco,
più grande del sole, più vasta del mondo;
nemmeno un grido risuonerà e solo il silenzio come un sudario si stenderà
fra il cielo e la terra, per mille secoli almeno,
ma noi non ci saremo, noi non ci saremo.

Poi per un anno la pioggia cadrà giù dal cielo
e i fiumi correranno la terra di nuovo
verso gli oceani scorreranno e ancora le spiagge risuoneranno delle onde
e in alto nel cielo splenderà l’arcobaleno,
ma noi non ci saremo, noi non ci saremo.

E catene di monti coperte di nevi
saranno confine a foreste di abeti:
mai mano d’ uomo le toccherà, e ancora le spiagge risuoneranno delle onde
e in alto, lontano, ritornerà il sereno,
ma noi non ci saremo, noi non ci saremo.

E il vento d’estate che viene dal mare
intonerà un canto fra mille rovine,
fra le macerie delle città, fra case e palazzi che lento il tempo sgretolerà,
fra macchine e strade risorgerà il mondo nuovo,
ma noi non ci saremo, noi non ci saremo.

E dai boschi e dal mare ritorna la vita,
e ancora la terra sarà popolata;
fra notti e giorni il sole farà le mille stagioni e ancora il mondo percorrerà
gli spazi di sempre per mille secoli almeno,
ma noi non ci saremo, noi non ci saremo,
ma noi non ci saremo…

L’ultimo racconto

postato il 6 Set 2011 in Main thread
da ad.6

L’immenso sole era rosso e nero il cielo senza stelle. I piedi dell’uomo calcavano con incedere lento e pesante il suolo polveroso e lo stesso facevano i sandali della donna e le scarpe del bambino e le gocce di una pioggia in un mondo senza nubi. E senza concedere alla terra il riposo e il conforto dovuti a una madre malata, il capo reclino ma vigile sulle lenzuola del tempo passato, l’uomo e i mille e mille come lui, con i loro leggeri passi sconfitti ma forti della propria rassegnazione, percuotevano la sabbia che, sollevata dal costone della collina, riempiva la vallata sottostante e il fiume, i cuori degli uomini e con essi il mondo intero, mutando tutto in sabbia.

Lì, circondata dai bruni colli da lontano giunti per adorarla, si ergeva immane e sconfinata la Roccaforte Celeste, ultima e più grande espressione dell’umano attaccamento alla terra, nelle ere che furono, alla quale lo straordinario castello, assieme alle aride colline, cingeva il capo, comico diadema per la decrepita reginella del cosmo.

<<Avanti, figliolo. Pochi passi, poche ore e saremo alla Celeste, tutti assieme come all’inizio dei tempi>> sospirò il padre rivolto al figlio mai avuto mentre arrancava assieme a tutti gli altri in incommensurabile carovana. “E allora l’Ultimo Re chiamò a raccolta le genti da ogni luogo e la terra rispose a lui unita e compatta preparando il carro verso i sentieri del sole”* si ripeteva la litania, quasi un inno sacro, ben più che un rituale magico, figlia di un mondo in cui finalmente la scienza era tornata a chiamarsi magia e in cui la religione non era più che un’ombra di ciò che fu, ormai rimasta senza speranza, che è l’unico Dio dell’uomo.

Così, sotto la magica calotta di piombo fuso che oscurava il cielo e preservava la terra, da ogni parte del mondo sulle cineree cime attorno alla Roccaforte Celeste confluivano i fiumi ultimi della vita che, curvi e vorticosi in perfetta simmetria, formavano con i loro plotoni di uomini un nuovo sole pulsante, a sfregio del suo ormai immobile fratello, e calmo e vivo le spire di questo avvolgendosi in maniera fluida ed incolore attorno alle antichissime pietre della Rocca “ch’è fine e fulcro per cui ruotano il tempo e la storia”**.

La Roccaforte Celeste, cuore e culla dell’uomo e degli dei, era loro rifugio nei periodi di maggior travaglio: narrano i testi di come vi si ripararono i secondi allorché furono primariamente sconvolti dalla nascita della vita (Quale vita? Nascere? Morire?) e del giorno in cui lo faranno i primi, parimenti sconvolti di fronte alla chiave dell’immortalità, che è il nulla. Ecco quindi il dono e il pegno, la promessa e l’imposizione dell’ultima cattedrale del cosmo: sarai dato alla luce, luce sei e nella luce svanirai come le ombre; l’essere dei non è un’aggiunta ma una privazione e dovrai dare in pegno una sola, effimera cosa: l’esistenza.
Così eccolo il baluardo della vita che non è più (né forse è mai stata) speranza accogliere in sé le ultime lacrime dell’uomo e rifulgere di queste. Ogni uomo è lì lacrima dei propri occhi perché gli occhi ormai non potendo piangere sono sostenuti dai monti e dalle nubi che, non potendo confortarli, soffrono e piangono per loro.

La polvere in prossimità del centro del sole viene calpestata da passi di donna. La donna cammina portando in braccio la figlioletta, la quale non emette suono né può (né vorrebbe) spostare la polvere che fa da silenziosa cappa al mondo: non esiste.

<<Rimira l’alta dimora dell’Ultimo Re, figlia mia>> fu la frase che disse, gli occhi al suolo di ruggine, la donna rivolta alla figlia che non aveva. E la donna stessa, in altri tempi, sarebbe stata chiamata duchessa se non fosse stata uguale, nell’estremo frangente, a tutte le altre donne. E sarebbe stata detta donna se in quegli ultimi attimi, alla fine del mondo, tutti gli uomini non fossero uguali, in cammino nella polvere. Fu così che il magro profilo, senza ricevere risposta alla domanda che non aveva fatto, entrò.

Ma, voi, guardate l’edificio celeste le cui fondamenta furono poste dalle immortali braccia degli dei antichi! Voi che potete, prostratevi dinnanzi alla gloria della magia che ancora tiene assieme la terra con la terra e l’uomo con l’uomo! Le mura svettano dal suolo tanto massicce e tanto estese da parere non meno di un altro suolo e di un’altra tutt’altro che indifferente tessera del cosmo; tuttavia sono così leggere e così fini da sfidare l’aria ed il vento ad attraversarle senza che nessuno dei contendenti ne risenta minimamente. Costole e braccia e ossa del pianeta, erano inizio e fine e pura luce. Ma quale meraviglia nell’occhio indagatore nel vedere che, quale ultima effige del mondo in rovina, anche la Celeste rovinava! Quale sgomento nel notare le crepe nei muri, gli intonaci scrostati, gli arazzi in polvere, i gradini scheggiati, le torri senza camminamenti né guardie, le guglie spezzate! Quale indicibile dolore e malinconia nel trovare l’atrio freddo e muto dove una volta erano calore e gradevole musica, la luce debole e soffusa, gli scaloni principali divenuti ormai un’unica salita verso il primo salone attraverso la sola anta rimasta ad una porta ch’era d’oro e diamante! Quale parola potrà dire come le sale siano diventati corridoi, una volta crollate le divisioni tra queste, come le porte assi di legno e i soffitti pavimenti? Questo rende la Città del Cielo impareggiabile tra le creature concepite! “Specchio e immagine immortale dell’universo”, riassume in sé le fratture e i tormenti e gli spasmi ultimi del mondo ed è in questo che compie veramente se stessa e si completa, perché le fessure e le crepe e le mancanze sono tante e tanto aerei e fini i muri e le costruzioni che più non è dato, nella sabbia che vortica come un tempo vorticavano i pianeti attorno al sole, distinguere la parete dalla finestra o il vetro dalla luce, la luce dal vetro. Impossibile ormai per lo sguardo disattento, umano, discernere il dentro dal fuori, questa la prima vittoria della Roccaforte Celeste, la quale ingloba in sé il nulla e il tutto, insieme come ai primordi. La prima, lo sguardo dell’uomo. La verità, ancora visibile, in quegli istanti, solo agli occhi degli dei, era il permanere, intatto, di un unico, invisibile muro grazie al quale, ai loro stanchi occhi, pareva ancora esistesse una Rocca distinta dal Mondo. All’interno, dunque, ecco il compassionevole sorriso quando, dopo gli atrii e gli scaloni e i corridoi e i soffitti, si giunge alla sala reale dell’Ultimo Re, dell’uomo e del cosmo. Era lì che vestiva una corona spezzata e, quale estrema gemma, con la Celeste, vestiva da corona al mondo. Quasi più che figura, egli sedeva sul trono che fu dei suoi padri, di grandezza spropositata lo faceva sembrare un bambino, ramoscello in mano e sterpaglia sul capo da poco immerso tra i fiori del campo erboso, giocando a fare il re. Quale spettacolo, allora, sul suo trono senza schienale e senza braccioli, senza tessuti e velluti, vedere una tale schiera di piccole formiche tornare in una casa ormai per loro indistinguibile dal mondo, tornare da lui, tornare sotto lo sguardo degli dei ormai da troppo tempo silenti nel loro rifugiarsi dalla vita! “A mirar siffatta, composta turba non sarà tuttavia spettacolo alcuno, ché spenti saranno gli occhi dell’uomo e gli occhi di dio, gli uni per sempre, gli altri da sempre e per sempre***”.

Entrati che furono tutti, nei mesi, nella sala del trono, l’Ultimo Re sollevò il pesante braccio ricoperto di stracci così smuovendo la cenere accumulata dallo scorrere inarrestabile dei secondi, aperse la bocca e da questa uscirono parole di polvere che lentamente si adagiò al suolo. Uno solo poté udire quello che l’uomo non poteva aver detto coi suoni. Fece il suo ingresso.

Chiamato dal Re, entrò nella sala vestito di compatta polvere che appariva come luce una persona come quelle di un tempo, come gli dei ancora prima, con le iridi del colore del cielo profondo. E lo sguardo calmo e comprensivo, esile l’alta figura ma solida come i monti. Sorrise e le tenebre, benché inesorabilmente attanagliate attorno al morente cuore del mondo, abbandonarono per un istante gli occhi degli uomini che finalmente lo videro.

<<Eccomi a voi>> e le parole, normalissime ma belle come le cose che svaniscono nel tempo e nello spazio senza lasciare traccia di sé, riscossero i loro cuori dagli abissi, un’ultima volta.

<<Siamo qui per narrarvi una breve storia ciclica, la vostra e la nostra storia, di come nacque il mondo che conosciamo e di come non finirà, delle leggi che lo regolano e dell’eccezione, che è legge e speranza dei vivi e degli immortali. Ascoltatemi e guardate ciò che dico, di modo che il mio verbo sia per voi la luce, perché ormai è il tempo delle tenebre.>>

Con tali parole cominciò lui e loro iniziavano ad ascoltarlo con la noncuranza del vento. Li guardò, allora, illuminandoli della propria inspiegata forza e narrò del principio dell’universo, della fiamma, del tremendo rumore, dei colori, della vita, dell’uomo, della magia, della scienza, della magia, nuovamente. Ad ogni parola, ad ogni sillaba, risuonava di più il cristallo dei cuori degli astanti, dell’umanità, e di più questi abbandonavano il tramonto per poter immaginare l’alba.

<<Ed ecco che l’uomo, casuale inabitante del giardino di dio, colse l’ultimo barlume di ragione in una mente ormai allo stremo e comprese che il mondo andava morendo: spente sarebbero diventate le stelle e freddo tutto ciò che è, l’erba polvere e le piante e i viventi e tutto sempre e solo indistinguibili e radissimi granelli di polvere. Aveva inoltre compreso che, sebbene il mondo fosse stato in costante declino fin dalla nascita, tuttavia il sapere umano era non dissimile dal sole nel suo corso, il quale prima sorge e già esulta per la propria vittoria sul mondo quand’ecco che ormai declina e si spegne, e allo stesso tempo compresero che inevitabile sarebbe stato il tramonto della scienza. Allora, sfruttando di questa l’attimo di massimo fulgore, si adoperarono affinché, quand’anche il sole e le stelle fossero morte, il pianeta potesse continuare il suo viaggio disperato nel vuoto, sfruttando le ultime, esigue energie dell’universo. Poi che il sole ebbe posato finalmente il capo tra le eque braccia del nulla e con esso, già da ere, la creatività degli uomini e l’anima della scienza, si mise in atto il grandioso programma degli antenati, senza che ormai nessuno potesse comprenderlo, e fu costruita, o forse rivelata, la Roccaforte del Cielo e innalzata dall’antico sapere la magica e plumbea coperta che è culla e capezzale alla terra e all’uomo. Fu subito il momento di inviare, secondo quanto ultimamente disposto, una persona come quelle di un tempo, come gli dei ancora prima, perché, altro e diverso figlio degli astri, andasse tra le stelle, ormai piccoli sassi scuri dispersi nell’oscuro vuoto, alla ricerca di una verità nella vita, alla ricerca del sogno e del mito. E costui, mentre guardava nel nero del proprio cuore più che nel nero del cosmo alla fine dei suoi giorni, proiettandosi nel mare di ciò che viene immaginato, verso altri Zeus e altri Ade, capitò lì, navigatore allo stremo, oltre i limiti della propria mortalità, dove dio, l’intuizione o la fantasia più irreale ti rivelano la realtà. Brandendo allora la verità quale spada, trafisse le tenebre dello spazio e del suo futuro e tornò ai verdi campi e alle distese azzurre che lo avevano generato.

<<Ed ora sono qui, perché l’eccezione è alle porte, lo strappo alle regole che è regola essa stessa ed è la porta per il vostro futuro, che è il presente.

<<Arrivò un bardo dalle stelle, tornando tra mari e valli e trovando valli di grigio sale e mari di oblio, si guardò attorno e se ne dispiacque. Si diresse dall’uomo e gli parlò con parole dolci, parlandogli del suo passato e del suo presente e donandogli la speranza, che è la realtà.

<<E lì, al cielo! Su! guardate! Il bardo ha appena finito di parlare di sé che la sfera di piombo comincia a ruotare e a brillare di azzurro splendore e piove acqua. Acqua. Siete allibiti, lo vedo, voi ridete! Quanto tempo, quanto tempo che gli uomini non sono più uomini! Perché voi lo vedete, fuori e dentro, che il mondo piove, che il corso si inverte. Torna il vapore fuggito nei millenni via dalla terra e vi si ricondensa in gocce, la sabbia torna pietra e la pietra torna roccia e monte, la polvere torna, placida ma inesorabilmente, erba e alberi e vita! L’uomo torna uomo perché è il cosmo che torna sui suoi passi, senza che lo stesso faccia il tempo. Quanto avevano sbagliato i nostri avi quando, dalle vette dei monti osservando il cielo e l’animo nostro, avevano predetto il destino e la fine dell’universo, nel vuoto e nell’oscurità! Vedete ciò che dico e piangete di gioia, come è scritto ed è giusto e le vostre prime lacrime, mai si vide cosa simile, spegneranno le fiamme di questo sole fasullo e riaccenderanno, nell’imponente ineluttabilità degli eventi, il vero sole attorno al quale già la terra si appresta a danzare in festa, per sempre e poi per sempre e per sempre. E danzate, danziamo assieme alla terra, nell’erba che sta nascendo, sotto la pioggia che laverà finalmente ogni sconforto dai nostri volti, ingiustamente cupi e vuoti per troppo tempo sotto l’ingannevole scure della morte!>>

Fu allora la danza dell’umanità, la più bella che mai si sia vista e che mai si vedrà. Persino gli dei, che mai si curarono delle faccende umane, scesero tra di loro e, assieme nel comune destino e nel comune tripudio, ballarono danze celesti, mano per mano con gli altri. Uno è da sempre l’invincibile nemico delle divinità, ovvero l’Ineluttabile, ed ora essi vedevano che era stato sconfitto.
Tutti guardavano e tutti vedevano, tra i coloratissimi voli degli immortali e le armoniose danze dei mortali, il mondo che rinasceva e con esso le speranze, che sono gli dei, e gli dei e il sapere, che è vita, e la vita.

Sola, al centro dei volteggi, dei cerchi in musica, del cosmo, della Roccaforte Celeste, era la Morte che non danzava, ma sorrideva solamente. E vedeva. Il suo sorriso aveva un che di materno e un qualcosa di malinconico nel rimirare tutta quella festa universale attorno a sé.

<<Certo che mi hai piacevolmente stupita, sai? Non ti facevo così romantico>> disse lei al Nulla lì fermo a contemplare il tutto quasi compiaciuto, quasi felice ed in qualche modo pensieroso, se mai fosse stato possibile al Nulla, appoggiato su un grumo di calce invisibile ai mortali, una persona come quelle di un tempo, come gli dei ancora prima.

E allora il mondo fece l’ultimo passo che gli era stato concesso: quell’intangibile e misera costruzione, nel silenzio totale, crollò e divenne invisibile anche agli occhi degli dei e la Roccaforte fu il mondo e il mondo fu la Roccaforte per un unico, lunghissimo, addirittura piacevole istante. E, quasi in risposta, egli si volto verso di lei e le sorrise per un’ultima volta, alzò le spalle e disse:

<<Che ci vuoi fare? Siamo fatti così.>>

E fu il nulla.

 

 

*Libro della Scienza, Cap. XXVII
**Libro della Fede, Cap IX
***Libro della Scienza, Cap. XXIV detto “Apologetico”

La storia, intima e breve, di una partenza

postato il 6 Set 2011 in Main thread
da VaMina

Soppesò il phon in una mano e il pentolino della ceretta nell’altra. Non sarebbero mai entrati entrambi e, in fondo, la ceretta è una cosa diabolica. Eccolo, il vincitore. Gettò con malagrazia il phon sulla pila di vestiti, chiuse la valigia e la fissò. Era di quelle che si usano come bagaglio a mano: compatta, ultraleggera, tante cose belle nella pubblicità, insomma. Non c’entrava nulla lì dentro. D’altronde, proprio quella volta, inutile lamentarsi, una valigia migliore non avrebbe aiutato, dato che non aveva idea di cosa le potesse servire. Stava iniziando a considerare l’idea di prendere uno zaino, infilarci un cambio di biancheria e basta, ma un suono persistente bloccò il pensiero disfattista sul nascere. Mentre si dirigeva verso il telefono che squillava già da un po’, afferrò il libro che stava leggendo. “ Mamma? Sì, sono quasi pronta. No mamma, non mi porto un panino. No, non penso che serva. Anche io vi voglio bene. Ciao.” Sospirò. La quinta maledetta telefonata della giornata. Non mancava molto, doveva sbrigarsi. I documenti li aveva già in borsa. La ossessionava quella sensazione strisciante, che penetra la mente, la carne, le ossa. Non la sensazione di aver dimenticato qualcosa. No, era la certezza che appena avesse varcato la soglia di casa, avrebbe sentito quel bisogno che domina le partenze. Il bisogno irrefrenabile di portare quel vestito che non hai messo in valigia, di sentire quel disco che non hai mai comprato, di vedere quell’amico senza il quale hai vissuto benissimo per tre anni, di stare nella cucina che detesti, sulla sedia che odi, a bere un caffè che bruci sempre. La sensazione che l’aveva sempre spinta a tornare in casa, le innumerevoli volte che aveva cercato di scappare. Uscita dalla porta, le era sempre mancato il coraggio di chiamare l’ascensore, di trascinarsi per le scale. Passò in rassegna le finestre, per la terza, quarta volta. Chiuse i cassetti e le ante degli armadi rimasti aperti. Non avrebbe dovuto chiamarlo, quella mattina. Gli altri li aveva sentiti tutti la sera prima, li aveva salutati, aveva augurato belle cose, ripromettendosi, niente telefonate, quel giorno. Ma non aveva resistito. Aveva fatto le cose con calma, aveva scritto un foglio pieno di parole e cancellature. Si era seduta a gambe incrociate, per terra, con le spalle al termosifone, come quando era ragazzina. Aveva alzato la cornetta con circospezione, fatto il numero, aspettato. Un bel respiro. Poi aveva accartocciato la pagina piena di inchiostro sensato e piuttosto ragionevole. Aveva urlato, pianto, insultato, tutto nei trenta secondi concessi dalla segreteria telefonica. Lo squallore dei gesti rituali, infantili, l’assaliva. Si spazzolò i capelli, spense le luci, chiuse l’acqua, il gas. Controllò il gas. Spinse i bagagli davanti alla porta. Chiuse gli occhi, fece mente locale. Era tutto pronto. Uscì tirando la valigia e chiuse a chiave.
Quando scese nell’atrio quasi tutti gli altri inquilini erano già all’esterno, sulle scale. Li raggiunse.
“Buongiorno a tutti”.
“Buongiorno, cara, si sente pronta?” Il suo vicino le fece cenno di avvicinarsi. Sistemò la roba con quella degli altri, accatastata in un angolo dell’ingresso, e si sedette accanto a lui. Si sentiva pronta? Sì. No. Forse. Cercava di non pensarci. Si sforzò di rispondere:
“E’ una bella giornata, vero?”
“Vero, vero. Ottima, per un avvenimento simile. Ha visto la signora del terzo piano?”
“No, perché?”
“Credo non l’abbia presa bene. L’ho sentita urlare.”
“E’ successo a molti.” Diede un’occhiata all’orologio. “Sta iniziando.”
I borbottii di tutti cessarono. Guardavano attenti davanti a sé.
Il loro palazzo non fu il primo ad essere colpito. Cominciò come una frustata, come una decisione presa all’improvviso, come un’idea lancinante. Il cielo si copriva di rosso, di blu, di colori sconosciuti, vorticavano, brillavano intensi. Venti opposti lottavano, strappavano i vetri alle finestre, le antenne ai tetti. Scoppi purpurei ribollivano in lontananza, le fiamme guizzanti che lambivano le stelle e il sole. L’asfalto si fendeva, crepe si aprivano scure e minacciose nel terreno, sputando fumi neri e violacei, simili al respiro di un drago che si annida sotto la terra da tempi lontani, impaziente, ora che vede la speranza di levarsi ancora una volta in volo. La più completa gamma dei suoni e dei rumori squarciava l’aria, rombi, sinfonie, grida, frastuoni. I palazzi tremavano squassati da spasmi irregolari e crollavano. Gli alberi si innalzavano come per un profondo sospiro e ricadevano gemendo nelle fosse, nelle nuove valli urbane. Le automobili si accartocciavano e si scioglievano, i lampioni si tuffavano nel fuoco. Una pioggia insistente cominciò a battere sulle fiamme, che annegavano, naufragavano, morivano, risorgevano. Schiere di nubi nere marciarono dagli angoli del cielo e, dopo essersi mischiate nel mezzo della volta celeste come armate nemiche che si scontrano furiosamente in battaglia, si saldarono ai fumi oscuri che sorgevano dalla terra, oscurando la vista. E poi, tutto finì.

 

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