20 Novembre 1820, Pacifico

postato il 24 Apr 2012 in Cazzi e mazzi personali
da Vobby

Respiro.
Piccole gocce mi piovono sul capo, sospinte da un vento leggero.
Trascorrono i minuti.
Respiro.
Onde basse si infrangono sul mio dorso. La schiuma scivola fra le rughe della mia coda, fra le numerose cicatrici della mia fronte.
Respiro.
Una debole corrente mi carezza il ventre, l’acqua è tiepida.
La corrente potrebbe essere impetuosa e l’acqua potrebbe essere gelata.
E io me ne accorgerei appena.
Mi sveglio, respiro.
I battiti dei miei simili hanno turbato il mio riposo, il desiderio d’incontrare una femmina è irresistibile.
Anche alla mia età.
Nuotando in queste calde acque ho sentito diversi gruppi in movimento. Gruppi di giovani maschi, la forza della mia voce li ha fatti allontanare.
Sono irrequieto.
So che manca poco al momento di combattere.
Come decine di altre volte, mi preparo a sentire sulle mie zanne la carne dei miei rivali, a macchiare il mare del loro sangue.
Ho smesso da anni di ricordare la mia ultima sconfitta. E’ passato così tanto tempo, che oramai mi chiedo se sia mai avvenuta.
Respiro.
Non ha importanza: non perderò mai più.
Nessuno è più grande di me, nessuno è più forte di me.
Sento gli schiocchi di una voce maschile. La furia monta nel mio petto alla sola idea che un maschio non si sia allontanato, sentendo martellare il mio ruggito!
Ma va bene così. Non è giovane, è piccolo. La sua voce mi porterà dal gruppo di femmine.
Respiro.
Il vento si fa più forte in questa calda mattinata.
Sono affamato.
Le femmine sono ancora lontane, e nessuno le raggiungerà prima di me. E’ tempo di andare a caccia.
Respiro. Respiro. Inspiro.
Sbatto la coda sulla superficie e mi tuffo nel profondo.
Precipito.
Passano i minuti.
La luce si fa lontana.
Passano i minuti.
Sono immerso nella profondità delle tenebre. Smetto di vedere e comincio a sentire.
Schiocco.
Schiocco.
Odo il suono della mia stessa voce, che ritorna per raccontarmi ciò che ha incontrato.
Immense scogliere, indescrivibili canyon e colossali montagne.
Il mio regno. I suoi abitanti, le mie prede.
Vibro codate poderose e allargo le pinne nell’insostenibile peso del buio.
Posso andare molto più in basso.
Paralizzati dalla mia mera presenza, aggredisco i banchi di molluschi.
Ne divoro a decine.
Potrebbero essere centinaia, e comunque faticherebbero a saziare la mia fame.
Il mio immenso appetito.
Le femmine.
Altri appetiti mi dicono che non vorrò immergermi di nuovo.
E’ passata un’ora.
Potrebbero essere due.
Accelero, cercando pasti più sostanziosi.
Schiocco.
Schiocco.

Schiocco.
Lo sento.
Mi sente.
Fra gli anfratti rocciosi cerca di nascondere la sua colossale figura.
Sono l’unica creatura che è costretto a temere.
E ha ragione di farlo.
La mia venuta interrompe d’un tratto la sua dominazione in questi abissi.
Mio timido vassallo, affrontami.
Questi miseri sassolini non possono che graffiarmi.
Spalanco le terribili fauci e gli sono addosso.
Divello il suo nascondiglio e affondo le zanne nella sua molle carne.
Si avvinghia sulla mia testa.
Con il becco e gli artigli apre ferite sulla mia pelle.
Come se ormai ci facessi caso.
Non può resistere, lo ingoio che ancora si dibatte.
Lo schiaccio nella mia gola.
La sazietà, l’ennesima vittoria.
Schiocco, mi oriento.
Ascendo.

Passano i minuti.
Ascendo.
Zittisco, mentre i miei occhi tornano a vedere.
Emergo.
Soffio, inspiro: respiro.
La luce torna a riflettersi sulla mia bianca maestà.
Respiro.
Respiro.
Sazio, respiro.
L’altro appetito. Mi muovo nella direzione delle voci femminili.
Mi aspettano con ansia.
Passano le ore.

Respiro.
Avvisto il branco, il branco mi vede.
Avendo sentito del mio arrivo, nessun altro maschio ha provato ad avvicinarsi.
I piccoli dovranno imparare a temermi, ma per ora lascio che mi osservino incuriositi.
Le signore si lasciano avvicinare.
Ce n’è per tutte.

Non siamo soli.
Le orche non oserebbero attaccare ME.
Libero il più forte dei miei ruggiti, tale da atterrire i più giovani e stordire le madri.
La creatura sembra ignorare la mia voce.
Non posso crederci.
Nessuno è più grande di me.
Tranne la creatura.
Quest’essere mi oltraggia. Era da mezzo secolo che non avevo paura.
Mi avvicino con circospezione, fendendo il branco cerco di mostrare tranquillità.
La mia presenza. Tranquillizza tutti i presenti.
Ma non impaurisce la creatura.
L’abominevole essere scivola sull’acqua, poggiandosi su di essa come farebbe un albatro.
Sembra privo di peso, ma la sua massa è sconfinata. I fianchi solidi, bruni, mentre dal dorso, che non riesco a vedere, si spalancano ali gigantesche.
Mi provoca con un insopportabile brusio, mentre continua a ignorare la mia voce.
Dalla creatura si separano, come partorite, creature di dimensioni minori.
A loro volta, ignorano la mia voce. Una di loro mi si avvicina.
CHI SEI!?
Un’altra delle creaturine ha già raggiunto uno dei piccoli, che con naturalezza si era lasciato avvicinare.
Prima ancora che arrivino a toccarsi, vedo sgorgare il sangue.
Dal cielo becchi d’aquila più duri della roccia si conficcano nella mia schiena.
Le femmine sono sconvolte.
E’ più grande di me.
E’ più grande di me.
La madre del piccolo colpito emette un cupo lamento, e già sanguina a sua volta.
NESSUNO E’ PIU’ FORTE DI ME!
Mi precipito furiosamente sull’essere che ho di fronte. La mia testa sfonda le sue costole, i miei denti cercano di masticare questa durezza sconosciuta. Non sembra riuscire a reagire.
Nessuno è più forte di me!
Dal basso, mi scaglio sulla seconda piccola creatura. La forza della mia coda la riduce a brandelli.
Il mare si riempie di piccole e rumorose bestie che non so da dove siano venute.
Non importa.
Ho dominato troppe volte l’ombra dell’abisso per ritirarmi di fronte a questo coriaceo e immane sconosciuto.
Perché nessuno è più forte di me.
Oppongo morsi, colpi di testa e di coda alle spine che continuano a trafiggermi.
Temo per la mia vita.
Al mondo non sembra esserci nulla, se non il fragore della battaglia.


Respiro.
Sanguino.
Vittorioso, vivo.
Il mostro che affonda mi lascia nuove cicatrici.
La promessa di nuove battaglie.
Prevarrò.
Perché io sono Cachau il Grande Dente e sarò per sempre il re del mare!

L’armatura e l’orecchino, l’aedo e il politico

postato il 4 Gen 2011 in Cazzi e mazzi personali
da Vobby

L’Iliade, l’Odissea e il racconto epico in generale sono densi di errori e stranezze: la spiegazione del perchè la tomba di un eroe chiamato Ettore si trovi a Tebe e non sulla costa anatolica non è convincente, Omero non aveva idea di come fossero usati in battaglia i carri da guerra, ci sono curiose analogie fra il mito di Odisseo e quello di Giasone, a Itaca non è mai stata trovata traccia alcuna di importanti insediamenti umani nè tantomeno di palazzi reali, si raccontano eventi che secondo secondo gli stessi greci avvennero fra il 1300 e il 1200 a.C., ma viene descritta una civiltà che non ha niente a che fare con quelle Micenea all’epoca presente nell’Egeo, e si potrebbe continuare a lungo. Tuttavia il ciclo Troiano, più che un insieme riordinato di miti e leggende preesistenti, più che il ricordo confuso di una o più guerre avvenute fra diverse città e diversi regni egei, è innanzitutto il mito fondativo di un popolo, è il testo che racchiude lo spirito e il genio di quest’ultimo, è “enciclopedia tribale”, nel senso che contiene i precetti morali, i valori e principi ai quali ogni uomo, nell’ottica del tempo, dovrebbe adeguarsi, da quale sia il giusto codice di comportamento da osservare in battaglia a quale sia il rituale corretto per celebrare funerali.

Questa narrazione (che la maggior parte dei greci riteneva veritiera, almeno nella sostanza) è, come la maggior parte delle opere di letteratura del passato, lo specchio idealizzato nella quale si vedeva riflessa la classe dirigente; l’Iliade, in particolare, vuole essere “un deliberato guardare indietro a una perduta età eroica” dal cui ricordo i moderni avrebbero dovuto trarre insegnamento, dalla quale però “aspetti del mondo contemporaneo venivano esclusi come argomento di poesia”: si tratta di Demetra e Dioniso.
E’ importante a questo proposito riflettere sul significato stesso del termine “narrazione”: l’atto di narrare è innanzitutto quello di discernere fra gli argomenti rilevanti e non, scegliere fra tutti i temi efficaci a trasmettere un messaggio. Nel passato esistevano certamente Dioniso e Demetra, certamente li conosceva l’autore dei poemi, ma al fine di narrare proprio quel passato eroico non è fondamentale nominare quelle due divinità,se non di sfuggita, ed è anzi perfettamente lecito escluderle dall’Olimpo.
Esistono due differenti ordini di motivi per i quali Omero non parla di quei due dei. Il primo è il più immediato, ma proprio per questo forse banale e non del tutto corretto: il poeta avrebbe preferito dare rilevanza a certe divinità, come Zeus, Apollo e Atena, perchè esse sono più funzionali di altre a giustificare un certo ordine gerarchico della società. Più acuta è quest’altra osservazione: l’epos sorvola su Demetra e Dioniso non perchè si tratta di divinità nuove o rustiche, ma perchè esse fondano in modo specifico la prassi della vita politica, in quanto la prima è il centro del ritualismo femminile cittadino, in particolare attraverso la religione dei misteri, e in quanto il secondo sperimenta un diverso rapporto con il divino attraverso il pathos della rappresentazione teatrale, che fu sempre considerata un importante momento pedagogico. Dare troppo spazio a queste due “potenze” sarebbe stato incoerente con quel “deliberato guardare indietro” di cui sopra.
Per “narrazione” dunque non si deve intendere fedele narrazione di fatti passati o presenti, bensì racconto poetico, metaforico, irreale, ma soprattutto precettistico, istruttivo. Si tratta di considerare solo alcuni elementi di una realtà in cui ve ne sono molteplici e presentarli come coerentemente organizzati e indipendenti da quelli esclusi, in modo tale che il fruitore possa riconoscersi come sostenitore e partecipe della realtà rappresentata, così che il suo agire uniformi la realtà davvero presente a quella del racconto.

E ora…

Nichi Vendola, durante i suoi numerosi e appassionati comizi fa un largo uso dei termini “narrazione” e “racconto”. A causa di questo suo linguaggio ispirato, aulico e metaforico è stato criticato da alcune personalità politiche che invece fanno vanto della loro concretezza e praticità, come ad esempio Massimo d’Alema, il quale grazie alla sua chiara e precisa visione della realtà politica e sociale è riuscito a perdere brillantemente tutte le competizioni elettorali con il leader di Sel.
“Costruire il racconto di un’Italia diversa” è molto di più di uno slogan politico, e corrisponde abbastanza precisamente alla frase “dare voce all’Italia migliore”, che è il presupposto per creare effettivamente un paese più civile, onesto, vivibile. Queste due frasi, che ad alcuni sono sembrate messaggi demagogici privi di spessore e vuoti di significato, a me sembrano sembrano osservazioni piuttosto riuscite: oggi parlare di uomini vecchi e laidi che vanno a puttane, ascoltare notizie di case e ville non pagate, di trasferimenti di patrimoni in paradisi fiscali, di trattative fra mafiosi sulla gestione dei gasdotti, significa parlare di politica. Chiunque denunci questo stato di cose, ogni giornalista o semplice osservatore che esprima il suo disgusto per il degrado della situazione politica diviene irrimediabilmente oggetto di insulti e critiche personali, che vogliono dimostrare che chi critica lo fa per interesse proprio e non pubblico, che anche lui è un furbo, che sono tutti uguali, tutto questo secondo il meccanismo della “macchina del fango” che altri hanno spiegato meglio d come potrei fare io.
Il punto è che NON E’ VERO che sono tutti furbi ricattatori, disonesti collusi, sporchi corruttori, egoisti, anzi, non “sono”, non è vero che lo SIAMO. Questo _racconto_ non corrisponde alla _realtà_ ,solo che a sentirlo ripetere tanto spesso e sempre uguale, si rischia di convincersi che invece è proprio così, e si finisce per agire di conseguenza, sentendosi fessi a pagare le tasse o ingenui a credere in principi solidaristici. Quelle due frasi hanno portata rivoluzionaria: se restiamo fedeli a noi stessi, a nostri desideri di giustizia e bellezza, in ogni nostro gesto, senza cedere alla tentazione di uniformarci e ciò che non è realtà, ma che rischia di diventarlo, avremo la possibilità di essere noi la normalità, e verranno tempi migliori.

Giochi…

postato il 16 Nov 2010 in Giocoaperitivo
da Nigredo

Attenzione, l’argomento di questa volta non sarà quello dei Giochi, che fin troppo sarebbe affine a quello dei balocchi, bensì sarà UN gioco, che ho qui intenzione di proporre. La mia è una sorta di esercitazione retorica e concettuale, in cui ognuno, liberamente, potrà cimentarsi. Essa consiste nel proporre degli argomenti aspettando che qualcuno li raccolga e ne tiri fuori qualcosa. Inoltre, darò una lista di parole che, per i veri arditi del cimento, andranno collegate agli argomenti in maniera coerente e che non stoni con lo stile e la tematica affrontata. Eventualmente, se qualcuno di voi è addirittura tanto cinico, potrà specificare esplicitamente chi voglia che prosegua la tornata del gioco, raccogliendo le proprie parole.

Alla fine di ogni “pezzo”, ogni autore specificherà gli argomenti e le tematiche che chi ha intenzione di scrivere il pezzo successivo deve trattare.

Ora, perché la cosa abbia un proprio fascino, l’idea fondamentale è che i post, in sequenza, debbano formare un racconto, essendo parte di un unica macrostruttura coerente. Quindi, se io scrivo di Pippo Franco, è molto probabile che il nostro racconto dovrà avere lui come protagonista, e le successive lacrime amare saranno solo vostre.

Inutile dire che non voglio sottrarmi a questo gioco, quindi, una volta che gli altri avranno scritto, l’ultimo giorno dell’argomento sarò io a prendere gli ultimi argomenti e a completare la mia parte di racconto, diventando parte del cimento.

Bene allora, sbizzarritevi!

Argomenti:

I pirati

La libertà

Le maledizioni

Per veri arditi – Parole e digressioni:

Candelabro

Cinabro

Libeccio

Piemonte

Mastodonte

Per eroi finali:

Scegliete tra le due possibilità:

a) scrivere tutto il proprio pezzo senza mai usare la lettera “e” (un classico)

b) scrivere tutto il proprio pezzo come un unico periodo (se è troppo corto non vale!)

 

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