Sì, no, qualcosa

postato il 15 Giu 2011 in Main thread
da Vobby

“Una spallata spacciata per referendum spacciato per spallata”. Non è vero. E’ successo qualcosa di molto più enorme (ammesso che si possa dire), e mi perdonerete se parto da lontano, per argomentare questa affermazione.

Nel 555° numero della prestigiosa rivista Linus figura un bell’articolo dell’economista Vladimiro Giacché (scrittore, membro dell’associazione Marx XXI), il cui titolo è “La ‘scusa Bin Laden’ e la crisi rimandata”. Il sottotitolo recita: Una crisi già in atto viene addebitata all’attentato dell’11 settembre, ma gli Stati Uniti erano in recessione già dal marzo 2001, anche per lo scoppio della bolla speculativa della “new economy”.
L’articolo comincia rovesciando la tesi secondo cui l’attentato alle Torri gemelle e la conseguente guerra al terrore avrebbero avuto conseguenze negative sull’economia statunitense e quindi mondiale, rendendo più repentino e catastrofico l’avvento della crisi economica del 2008; in realtà, afferma l’autore, “la crisi sarebbe arrivata prima”.
A suffragio di questa tesi cita diversi dati e articoli risalenti al 2001, per concludere che “Insomma: la crisi c’era, ed era molto seria, già prima dell’attentato. Non solo: era sincronizzata tra le principali economie globali, che evidenziavano tutte un eccesso di capacià produttiva ‘al suo livello massimo dagli anni ’30’ (Economist del 20 settembre 2001)”.
Accadde cioè che una crisi già in atto venne attribuita all’attentato e che, cosa più rilevante, le imprese sfruttarono la situazione per richiedere iniziative, contributi pubblici e tagli delle tasse a loro vantaggio, giustificando il tutto proponendolo come “il modo migliore per rispondere all’11 settembre”.
L’articolo si conclude rispondendo alla domanda “e adesso?” facendo notare, fra le altre cose, che dopo l’uccisione dell’arcinemico il valore dei titoli di Stato USA è crollato. Prima della conclusione l’articolo si dilunga su una importante riflessione sul cambiamento del rapporto fra Stato ed economia negli Stati Uniti in seguito all’attentato. In particolare, l’autore (oltre a notare, giustamente, come le spese militari abbiano frenato la recessione americana) ritiene di individuare un evidente controsenso, o almeno un palese quanto incoerente cambio di rotta nella politica economica, nel fatto che “i più convinti sostenitori del liberismo e della necessità di lasciare briglia sciolta agli ‘animal spirits’ del capitalismo si trasformano in entusiasti sostenitori del ruolo dello Stato nell’economia, del deficit spending, dei sussidi alle imprese”.
Non la penso come lui.
Ma questa sensazione, questa percezione del controsenso, è alquanto diffusa: poche settimane fa ad esempio, discutendo con un amico di varie cose, siamo arrivati a parlare dell’attuale crisi economica. Io avevo addotto la crisi come tesi a sostegno del fatto che il liberismo economico non è esattamente la miglior forma possibile di gestione dell’economia, specialmente in un periodo in cui la finanza occupa un ruolo così importante: gli Stati stessi, dicevo, si vedono costretti in queste situazioni a trasformare il debito bancario in debito sovrano, facendo ricadere su tutta la popolazione colpe che sarebbero di pochi. Sul punto del debito, il mio amico notava quanto fosse ancora pressante la questione del “brutto vizio dello Stato di intervenire nell’economia”.
Il problema mi sembrò mal posto.
Secondo il punto di vista sia di Vladimiro che di Nicola (l’amico. Non dovrei parlare per lui, certamente il suo pensiero sulla questione è più articolato di come lo presenterò) ci troviamo di fronte a una contrapposizione insanabile fra liberismo economico ed interventismo statale, e di conseguenza ci sarebbe una chiara contraddizione fra la politica economica precedente e quella successiva all’11 settembre (Vladimiro), e fra la politica economica precedente e quella successiva alla crisi del 2008.
E’ vero, sembra difficile mettere assieme le due cose, trovare un filo logico. Come è possibile che nell’epoca della globalizzazione, cominciata con la Reaganomics e con la Lady di ferro, in cui le crisi economiche vengono affrontate con atteggiamento “liberal” perfino dal socialistissimo Zapatero, e durante la quale le misure di austerità, volte ad impedire la benchè minima spesa pubblica, sono imposte in modo tanto restrittivo perfino di fronte all’asfissiata economica greca, lo Stato ceda ancora alla tentazione di mettere le mani nel mercato, fra l’altro attuando misure dispendiose quanto spesso impopolari come gli investimenti militari e la pubblicizzazione del debito privato?
Come dicevo, a mio parere questa contraddizione è irrisolvibile solo fino a che non si osserva il problema da una diversa angolazione. Una volta fatto, tutto potrebbe diventare più semplice.
Per adesso abbiamo parlato dello Stato, che può o meno intervenire nel mercato, e dell’economia, che è più o meno libera dall’intervento statale. Facendolo si è trascurato l’elemento più importante, che è ciò che sta nel mezzo fra lo Stato e l’economia, cioè la politica, e più precisamente il potere politico.
E’ una questione di potere relativo, in realtà piuttosto banale. Lo si può spiegare guardando al caso italiano: se sono (la Fininvest,) le imprese, le banche, le società per azioni e gli organismi economici sovranazionali a dominare lo Stato, potremmo parlare di coincidenza fra attori economici ed attori politici. In questa situazione, tali attori vorranno precipuamente ampliare e consolidare la loro libertà dalle leggi e dai confini dello Stato, e vorranno poter depredare liberamente le imprese e le istituzioni pubbliche: così Marchionne minaccia di trasferire la Fiat in Polonia o in Brasile, così Brunetta blocca gli stipendi ai dipendenti pubblici, e li insulta pure, perchè il pubblico deve essere descritto come una zavorra inefficiente, così Tremonti può tagliare orizzontalmente gli investimenti alle imprese pubbliche, ancora una volta sbandierando il mito dell’efficienza, e così ancora una volta Tremonti, ma per mezzo della Gelmini, può demolire l’istituzione che per prima dovrebbe essere di tutti, cioè la scuola.
E se le cose vanno male, e c’è crisi, sono sempre gli stessi attori ad essere favoriti: in questa situazione lo Stato è prontissimo a prendere sulle proprie spalle, che poi sono le spalle di tutti, gli oneri e i debiti che l’irresponsabilità dei privati ha provocato: si spendono (male, è un problema pubblico, chi se ne frega) miliardi per l’inquinamento, per i cassintegrati, per risarcire le banche, e questo perchè i piccoli e medi imprenditori hanno voluto (e potuto. Dominano la politica, quindi lo Stato, chi dovrebbe impedirgli di fare i loro comodi?) risparmiare qualche spicciolo sullo smaltimento dei rifiuti, perché la Fiat non ha davvero un piano di sviluppo, perchè i manager non possono, e tantomento vogliono, curarsi delle bolle speculative.
Restiamo in Italia, ma non troppo. Prima ho nominato di sfuggita gli organismi economici sovranazionali. Senza tirare in ballo Banca mondiale, Fmi, Wto, dei quali sarebbe anche il caso di parlare, potremmo limitarci a notare che nemmeno metà della politica economica italiana è decisa da ministri che hanno avuto la fiducia dei nostri rappresentanti. Non è, non dico grave, ma perlomento problematico e suscettibile di critiche il fatto che tutte le principali decisioni in campo economico e monetario, in praticamente tutto il continente europeo, che considerato nel suo insieme costituisce il primo mercato mondiale, siano prese da una banca, la BCE, i cui dirigenti e operatori non sono in nessun modo responsabili di fronte ai cittadini?
Ce lo hanno insegnato nel terzo anno delle superiori, parlando un po’ del re Sole e un po’ della pace di Westfalia: una delle caratteristiche dello Stato moderno è l’accentramento del potere politico e quindi, fra le altre cose, il fatto che i re e diversi poteri centrali dei singoli Stati potessero decidere la loro politica economica indipendentemente dalle volontà particolari dei Comuni e dei feudatari, sovrani nel medioevo.
Poi, chi è arrivato dopo la seconda guerra mondiale col programma di storia avrà chiaro il concetto di liberaldemocrazia, ovvero del modello di Stato nato con la democratizzazione degli Stati liberali dell’Europa occidentale, con il quale si conclude il passaggio del potere, della sovranità, anche e soprattutto economica, dalle mani del monarca a quelle del popolo.
Ora, io mi ritengo discretamente europeista, ma non ho potuto davvero fare a meno di apprezzare l’intervento di Alex Zanotelli, che ieri sera a piazza del Gesù ci ricordava che è proprio l’Europa la responsabile della direttiva che imponeva la privatizzazione dei sistemi di gestione e distribuzione dell’acqua. Non può e non deve piacere questa europa (stavolta con la minuscola) che strappa la sovranità ai cittadini, che si delinea come fonte del potere politico dominata dalle grandi aziende e dalle banche. Lo so che la BCE riunisce la banche nazionali, ma secondo voi alla banca d’Italia chi conta di più, 500mila cittadini o la Mercegaglia? E alla BCE stessa, che è più che mai lontana tanto dai partiti quanto dai cittadini stessi? L’accentramento toglie potere ai singoli, l’accentramento della politica economica uccide la sovranità economica popolare.
Ecco, ce l’avete fatta, siete arrivati al cuore del post: non è meraviglioso, almeno quanto inaspettato, il fatto che il primo paese a rifiutare, e a chiare lettere per giunta, questo tipo di politica economica sia stato proprio l’Italia? Non è un caso che una espressione più spesso nominata durante la campagna per il Sì sia stata quella di “democrazia economica”, nè il fatto che da Bersani a Grillo tutti siano d’accordo sul fatto che la gestione del bene comune primario debba essere affidata in primo luogo ai Comuni, che sono di quanto più vicino esista ai cittadini. E’ veramente bellissimo, e io un poco mi sono commosso, anche se non ho fatto un cazzo a parte mettere quattro croci su dei fogli, discutendo di qua e di là con amici, parenti e conoscenti dei quesiti referendari.
Zanotelli ha sottolineato il fatto che questo evento avrà delle ripercussioni in Europa, che cittadini di altri Stati, e non viceversa, guarderanno all’Italia sentendosi ispirati. Vorrei concentrarmi di più, almeno per adesso, sull’importanza che questa consultazione ha avuto per l’Italia.
“Dire sì per dire no” è un po’ una metafora del fatto che per affermare, spesso bisogna negare. Senza entrare nella filosofia, basta ricordare come, ad esempio, la Nazione Germanica sia nata nel momento in cui tutti i paesi dell’area tedesca erano sottoposti a Napoleone. Anche in Italia avvenne qualcosa di simile, anche se più tardi: il sentimento antiaustriaco fu un fattore dominante di unificazione delle élite intellettuali dell’intera penisola durante il Risorgimento. Il nemico comune creò un’identità, seppur labile.
Con questo referendum, mi è sembrato sia stato compiuto un passo importante nella rifondazione, assolutamente necessaria, dell’identità italiana. La rifondazione (sì, uso proprio questo termine per fare pubblicità occulta a rifondazione comunista) di cui parlo, questo nuovo Risorgimento, si sta cementificando attorno a temi largamente condivisi, a differenza di come era successo fra il 1848 e il 1861. Oggi ciò che unisce il 57% degli italiani (ed è la maggioranza, e pure larga! non la grossa, becera, minoritaria minoranza che sostiene berlusconi) è il rispetto per un territorio magnifico e senza pari, la promessa che esso non sarà depredato e distrutto dalle scorie, la volontà di gestire in modo condiviso un bene fondamentale (“LA MADRE!!!” urlava ieri padre Alex), e insieme a questi il fermo desiderio di un giustizia uguale per tutti, che “sia fatta giustizia finchè non perisca il mondo”.
Il paese del “particulare”, diceva nemmeno un mese fa Scalfari citando Guicciardini. Sì, ma sta crescendo. Acqua PUBBLICA, rispetto del territorio NAZIONALE, giustizia uguale per TUTTI, e nel nome di tutti, hanno unito trenta milioni di italiani. C’è ancora tanta strada da fare; non è tutto. Ma è tantissimo!
E’ chiaro che questa rifondazione non si è attuata improvvisamente, venendo fuori dal nulla. Un’identià va costruita nel tempo.
Volendo guardare solo al breve periodo, posso provare a nominare in ordine sparso alcuni elementi che, secondo me, sono stati davvero fondamentali nella ridefinizione dell’identità nazionale.
Nell’ordine in cui mi vengono in mente:
1) Vendola: é omosessuale, è cattolico, è comunista, e questo di per sè ha contribuito a rendere contemporanamente meno provinciale e più libero da stereotipi il panorama politico italiano; mi azzardo a dire che questi fattori sono di per sè elementi di progresso, considerati nel loro insieme. E’ un leader popolare e rispettato anche fra chi non sostiene Sel. E’ certamente a capo di un partito-persona, ma il popolo di sinistra non è avvezzo a genuflettersi ai piedi di qualche capo, è piuttosto abituato a criticare e a partecipare attivamente alla politica. Non a caso il potere di Vendola, più che sul carisma (che poi non è così grande. QueFto Fud Fpaventato e vilipeFo non è COSì TANTO carismatico) si è fondato sulle fabbriche di Nichi, sulla sua vicinanza alla Fiom, sul fatto che abbia dato nuova voce ai sostenitori di una sinistra critica e alternativa. Ha reintrodotto temi e persone nel dibattito pubblico, e sta obbligando il pd a confrontarsi costantemente con qualcosa di diverso dalle sue beghe interne. Il suo stile di rapportarsi con i suoi elettori e con la società civile ridisegna in parte la conformazione del partito, che se non si trasforma rischia di venire superato dalle associazioni dei cittadini. In questo senso, insieme a Di Pietro, interpreta un’istanza di rinnovamento nel modo di tradurre la volontà popolare in atti politici. De Magistris e Pisapia, la loro distanza dai partiti e la loro vicinanza agli elettori sono altre manifestazioni del processo di riforma politica che è in atto.
2)Bersani. E’ veramente bravo. Non so dire se sia bravo come leader, nè mi riguarda in prima persona, ma è un vero politico, nel senso superiore del termine, nel senso che è un esperto non di politicismo ma di politica. Vorrei che sia chiaro che dal mio punto di vista i leader e le singole personalità valgono qualcosa in quanto interpretano volontà pubbliche, e Bersani svolge il suo ruolo egregiamente, mettendo sia alleati che oppositori di fronte a problemi concreti e a soluzioni politiche possibili, spazzando via tanto le grida e gli slogan di alcuni quanto l’inutilmente indignato e infantile idealismo di altri. Alla fine saranno i grillini a votare pd, non viceversa. Il movimento cinque stelle lo vedo importante, per quanto non fondamentale: può contribuire a riformare la sinistra italiana dando nuova forza ai temi dell’ambientalismo e della democrazia diretta, in questo ha un ruolo importante e unico. Non esistono davvero motivi per cui il movimento sia fuori dalla sinistra, a parte di de Benedetti e i pdmenoelle urlati da certi comici un po’ presuntuosi.
3)Lo scandalo dei festini ad Arcore. E’ in parte vero che ogni popolo ha il governo che si merita, perchè chi guida lo Stato riflette necessariamente le virtù e i vizi dello Stato stesso. Il paese, ad Arcore, è stato costretto a guardarsi allo specchio, e ha avuto paura. Lo schifo e lo squallore di Stato, nel quale potrei includere ad esempio la P3, sono stati un importante fattore di rifondazione italiana, per il fatto che hanno dimostrato da cosa dobbiamo liberarci. Condivido l’opinione di chi, poco sorpreso dalle Olgettine, ricorda che sono ben altri i problemi del paese. Giusto, ma un presidente del consiglio che usa il suo potere per togliere dalle caserme una prostituta minorenne, da lui sfruttata, e per corrompere i giudici della Corte Costituzionale è sintomo non trascurabile del problema enorme che è stata la distanza dagli italiani dalle istituzioni, lo scarso e spesso quasi nullo rispetto che lo Stato e le sue leggi suscitano fra i cittadini. E’ principalmente in questo senso che qualcosa sta cambiando. La vittoria del sì al referendum esprime chiaramente un segno di repulsione verso tale retaggio culturale e politico, e la stessa nascita di un grande centro, o di una nuova destra, che dir si voglia, è un po’ il risultato di questo guardarsi in faccia, senza rinoscersi nè piacersi.
4) Vieni via con me. E’ innegabile il ruolo della trasmissione nella definizione di un’identità nazionale. In primo luogo, per la sua capacità di sprovincializzare e dare rilevanza nazionale a problemi particolari. Saviano che spiegava le responsabilità delle industrie del Nord nella crisi napoletana dei rifiuti e le colpe del governo centrale nella gestione de L’Aquila terremotata è stato il giusto e necessario avversario ai discorsi volgari, incolti e razzisti di Borghezio. Il programma fu accusato di ridursi a essere una vuota liturgia, in cui nomi e temi già noti si succedevano senza un reale filo logico. Un editorialista di Linus (se ben ricordo. Forse era del Manifesto) osservò che questa critica sarebbe stata giusta solo se quella successione fosse rimasta fine a sè stessa, solo se non fosse riuscita ad unificare e sintetizzare in una concreta volontà e identità politica le proprie diverse istanze. Ebbene, la critica si è rivelata miope, perchè Vieni via con me ha combattuto e vinto una grande battaglia di civiltà, battendo sia il grande fratello che la male gestione della Rai, riuscendo ad essere non insieme di voci distinte, ma voce unica di istanze molteplici.
Identità.
Nazionale.
Segue logicamente:
5) Il centocinquantenario. I detrattori del Risorgimento del Nord e del Sud, di destra e di sinistra, sono a mio avviso rimasti spiazzati dalla grande partecipazione che ha caratterizzato l’evento. E’ stato un momento di festa, sì, ma anche e soprattutto di riflessione.
Una sorta di bilancio, durante il quale il paese ha potuto e voluto parlare innanzitutto di sè, guardare alla sua storia, chiedersi come proseguirla, su quali valori edificarla. Il leghismo ha subito un duro colpo dalla ricorrenza.
Non saprei bene come concludere. Mi scuso per la lungaggine e per la confusione, ma c’erano molte cose che mi sentivo di dire, e mi era parso possibile metterle insieme. Fra l’altro aldilà di come li ho esposti, i temi sono importanti e meritano pagine ben più dense e numerose di queste. Rileggendo mi verranno in mente tante altre cose. Napolitano, per esempio. Vabbè, è tardi e il messaggio mi sembra chiaro. Ditemi un po’ cosa ne pensate.

L’armatura e l’orecchino, l’aedo e il politico

postato il 4 Gen 2011 in Cazzi e mazzi personali
da Vobby

L’Iliade, l’Odissea e il racconto epico in generale sono densi di errori e stranezze: la spiegazione del perchè la tomba di un eroe chiamato Ettore si trovi a Tebe e non sulla costa anatolica non è convincente, Omero non aveva idea di come fossero usati in battaglia i carri da guerra, ci sono curiose analogie fra il mito di Odisseo e quello di Giasone, a Itaca non è mai stata trovata traccia alcuna di importanti insediamenti umani nè tantomeno di palazzi reali, si raccontano eventi che secondo secondo gli stessi greci avvennero fra il 1300 e il 1200 a.C., ma viene descritta una civiltà che non ha niente a che fare con quelle Micenea all’epoca presente nell’Egeo, e si potrebbe continuare a lungo. Tuttavia il ciclo Troiano, più che un insieme riordinato di miti e leggende preesistenti, più che il ricordo confuso di una o più guerre avvenute fra diverse città e diversi regni egei, è innanzitutto il mito fondativo di un popolo, è il testo che racchiude lo spirito e il genio di quest’ultimo, è “enciclopedia tribale”, nel senso che contiene i precetti morali, i valori e principi ai quali ogni uomo, nell’ottica del tempo, dovrebbe adeguarsi, da quale sia il giusto codice di comportamento da osservare in battaglia a quale sia il rituale corretto per celebrare funerali.

Questa narrazione (che la maggior parte dei greci riteneva veritiera, almeno nella sostanza) è, come la maggior parte delle opere di letteratura del passato, lo specchio idealizzato nella quale si vedeva riflessa la classe dirigente; l’Iliade, in particolare, vuole essere “un deliberato guardare indietro a una perduta età eroica” dal cui ricordo i moderni avrebbero dovuto trarre insegnamento, dalla quale però “aspetti del mondo contemporaneo venivano esclusi come argomento di poesia”: si tratta di Demetra e Dioniso.
E’ importante a questo proposito riflettere sul significato stesso del termine “narrazione”: l’atto di narrare è innanzitutto quello di discernere fra gli argomenti rilevanti e non, scegliere fra tutti i temi efficaci a trasmettere un messaggio. Nel passato esistevano certamente Dioniso e Demetra, certamente li conosceva l’autore dei poemi, ma al fine di narrare proprio quel passato eroico non è fondamentale nominare quelle due divinità,se non di sfuggita, ed è anzi perfettamente lecito escluderle dall’Olimpo.
Esistono due differenti ordini di motivi per i quali Omero non parla di quei due dei. Il primo è il più immediato, ma proprio per questo forse banale e non del tutto corretto: il poeta avrebbe preferito dare rilevanza a certe divinità, come Zeus, Apollo e Atena, perchè esse sono più funzionali di altre a giustificare un certo ordine gerarchico della società. Più acuta è quest’altra osservazione: l’epos sorvola su Demetra e Dioniso non perchè si tratta di divinità nuove o rustiche, ma perchè esse fondano in modo specifico la prassi della vita politica, in quanto la prima è il centro del ritualismo femminile cittadino, in particolare attraverso la religione dei misteri, e in quanto il secondo sperimenta un diverso rapporto con il divino attraverso il pathos della rappresentazione teatrale, che fu sempre considerata un importante momento pedagogico. Dare troppo spazio a queste due “potenze” sarebbe stato incoerente con quel “deliberato guardare indietro” di cui sopra.
Per “narrazione” dunque non si deve intendere fedele narrazione di fatti passati o presenti, bensì racconto poetico, metaforico, irreale, ma soprattutto precettistico, istruttivo. Si tratta di considerare solo alcuni elementi di una realtà in cui ve ne sono molteplici e presentarli come coerentemente organizzati e indipendenti da quelli esclusi, in modo tale che il fruitore possa riconoscersi come sostenitore e partecipe della realtà rappresentata, così che il suo agire uniformi la realtà davvero presente a quella del racconto.

E ora…

Nichi Vendola, durante i suoi numerosi e appassionati comizi fa un largo uso dei termini “narrazione” e “racconto”. A causa di questo suo linguaggio ispirato, aulico e metaforico è stato criticato da alcune personalità politiche che invece fanno vanto della loro concretezza e praticità, come ad esempio Massimo d’Alema, il quale grazie alla sua chiara e precisa visione della realtà politica e sociale è riuscito a perdere brillantemente tutte le competizioni elettorali con il leader di Sel.
“Costruire il racconto di un’Italia diversa” è molto di più di uno slogan politico, e corrisponde abbastanza precisamente alla frase “dare voce all’Italia migliore”, che è il presupposto per creare effettivamente un paese più civile, onesto, vivibile. Queste due frasi, che ad alcuni sono sembrate messaggi demagogici privi di spessore e vuoti di significato, a me sembrano sembrano osservazioni piuttosto riuscite: oggi parlare di uomini vecchi e laidi che vanno a puttane, ascoltare notizie di case e ville non pagate, di trasferimenti di patrimoni in paradisi fiscali, di trattative fra mafiosi sulla gestione dei gasdotti, significa parlare di politica. Chiunque denunci questo stato di cose, ogni giornalista o semplice osservatore che esprima il suo disgusto per il degrado della situazione politica diviene irrimediabilmente oggetto di insulti e critiche personali, che vogliono dimostrare che chi critica lo fa per interesse proprio e non pubblico, che anche lui è un furbo, che sono tutti uguali, tutto questo secondo il meccanismo della “macchina del fango” che altri hanno spiegato meglio d come potrei fare io.
Il punto è che NON E’ VERO che sono tutti furbi ricattatori, disonesti collusi, sporchi corruttori, egoisti, anzi, non “sono”, non è vero che lo SIAMO. Questo _racconto_ non corrisponde alla _realtà_ ,solo che a sentirlo ripetere tanto spesso e sempre uguale, si rischia di convincersi che invece è proprio così, e si finisce per agire di conseguenza, sentendosi fessi a pagare le tasse o ingenui a credere in principi solidaristici. Quelle due frasi hanno portata rivoluzionaria: se restiamo fedeli a noi stessi, a nostri desideri di giustizia e bellezza, in ogni nostro gesto, senza cedere alla tentazione di uniformarci e ciò che non è realtà, ma che rischia di diventarlo, avremo la possibilità di essere noi la normalità, e verranno tempi migliori.

 

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