Azione disperata

postato il 17 Nov 2011 in Main thread
da Vobby

Si intende spesso l’espressione “azione disperata” come sinonimo di “azione certamente fallimentare”. Significa che non ci sono speranze di vittoria, che moriremo tutti, che la situazione che abbiamo di fronte è tale per cui non sono possibili esiti positivi.

Si riporti la disperazione dove le compete, cioè nella testa degli agenti: l’azione è disperata perchè loro sanno di non poter vincere. Cioè non hanno speranza di vittoria, non nel senso di possibilità oggettiva di vincere, bensì di situazione soggettiva di sperarlo.

Se l’azione in questione è davvero certamente fallimentare, allora la disperazione è lo spirito giusto! Questo perchè gli speranzosi davanti a un fallimento assicurato sono scemi prima e delusi dopo.

Forse cominciate a intravedere l’illusorio ossimoro che a me è sembrato di cogliere…

Il fatto che l’azione sia disperata, in quanto è azione, presuppone che si vada avanti lo stesso. E non che si provi lo stesso a vincere perchè l’azione è, dicevamo, disperata. Perciò si capisce che l’agire disperato è preceduto da una lucida analisi della realtà in base alla quale si è capito che non si potrà riuscire nei propri intenti e, soprattutto, da una motivazione per la quale si agisce comunque. Quindi, cosa è successo? Gli intenti, che altro non sono se non una costruzione mentale, una speranza (!), sono stati brutalmente uccisi dallo studio della situazione in cui ci si trova ad operare,per venire subito sostituiti dal contrario della speranza, la disperazione (!). Quindi, disperatamente, si abbassa il tiro: non posso realizzare i miei sogni, ma le motivazioni ideali per cui volevo realizzarli sono ancora valide, perciò non mi resta altro da fare che realizzare qualcosa di meno. E’ importante, perchè quel meno è l’unica cosa che poteva essere realizzata! Meglio scheggiare la dura roccia della realtà piuttosto che rompercisi inutilmente la testa contro!

L’agente disperato è un personaggio interessante: lui non prova a vincere tutto ma sa di vincere poco, perchè ha impiegato del tempo a capire come fare. Si trova in un mondo a lui ostile, lo sa benissimo e in virtù di questa consapevolezza vi si muove con disinvoltura. E’ assolutamente lucido, ma per nulla cinico: è probabilmente mosso da nobilissimi scopi, che certamente non vedrà realizzati. Non gli importa, perchè vuole avvicinare ad essi il mondo, non sè stesso. Ha capito che l’unica via breve è quella lunga.

Si è detto dell’ostilità che circonda questo grande altruista: alla sua destra si trovano i suoi innumerevoli nemici, i cinici e i codardi, gli egoisti. Alla sua sinistra si dibatte invece la folta schiera degli stupidi, narcisisti idealisti, che pretendono di agire senza capire e che non sanno neppure cosa dicono e perchè fanno. Egli disprezza la loro inadeguatezza nel perseguire scopi che spesso condivide. Li mette continuamente al muro con le sue superiori argomentazioni, venendo a sua volta accusato di apatia e conservatorismo da chi, fornendo nient’altro che scuse alla violenza della reazione, sta inconsapevolmente danneggiando la causa.

In ultima istanza, odia le sue stesse mancanze: ignoranza e debolezza. Allenamento e studio sono le sue principali occupazioni.

Lettera

postato il 26 Set 2011 in Cazzi e mazzi personali
da Azazello

[Questo post è stato scritto in pullman in una maniera perversa per cui non vedevo ciò che scrivevo, quindi perdonerete eventuali errori attribuibili alla cosa. Era anche un momento un po’… non saprei dirlo, ma comunque non ho avuto il coraggio di rileggerlo per controllare che non facesse schifo, però so che è importante per me e quindi lo posto ugualmente!]

Quelli che mi conoscono meglio tra i nostri due o tre lettori (ciao ma’, ciao pa’) probabilmente sanno che ruolo ha rivestito un uomo di nome Francesco Guccini nella mia vita. La cosa interessante, o forse triste, del mio rapporto con lui è che ho iniziato ad apprezzarlo molto prima di avere delle buone ragioni per farlo, più perché la mia mente di bambino era ignara dell’immenso panorama musicale in cui avrei potuto pescare le mie passioni infantili che non per effettivi meriti della sua musica, forse. Tutto è cominciato con un CD che si chiamava “L’Italia del Rock”, forse parte di una serie uscita in edicola, una compilation di brani che avevano (o non avevano poi tanto) fatto la storia della musica italiana, grazie al quale mi sono innamorato delle prime due canzoni di Guccini che abbia ascoltato: “La Locomotiva” e “Un altro giorno è andato”. Certo, sono stato colpito anche da altre canzoni di altri autori, come “Pablo”, “Stalingrado”, “Ho visto un re”, “Vengo anch’io!”, “El Pueblo Unido”, “Tammurriata Nera”, “Contessa”, ma quelle due erano tutto ciò che mi serviva per rendere sopportabile, anzi piacevole, le 17 ore di auto che separavano la mia casa di Heidelberg da quella di mia nonna a Napoli, un altro classico della mia infanzia.

Per alcuni (pochi) anni la situazione è rimasta quella: “L’Italia del Rock” era la mia principale se non unica fonte di musica e quelle due canzoni bastavano a soddisfare qualsiasi esigenza potessi avere in merito. Poi mia madre ha compiuto 40 anni ed ha ricevuto in regalo due dischi di Guccini: “Guccini Live Collection”, in due CD, e “D’amore, di morte e di altre sciocchezze” (c’è chi dice che “Radici” sia il più bel disco di Guccini, lui compreso. Queste persone non hanno capito niente e, chiaramente, non hanno mai ascoltato “D’amore, di morte, e di altre sciocchezze”. Lui compreso). Con queste due nuove fonti la mia esperienza in materia si è più che decuplicata, facendomi scoprire nuovi brani che avrebbero occupato i più bei minuti musicali della mia tarda infanzia (e della mia vita). Anche in quei momenti non capivo cosa stavo ascoltando, anche se se in certi casi potevo avvertire l’atmosfera che la canzone voleva dare, il suo senso: la placida dolcezza di “Vorrei”, l’incedere del tempo di “Lettera”, l’amarezza celata nel riso del “Matto”. Ho cominciato a crescere e a capire qualcosa di più di ogni canzone, sempre durante i lunghi viaggi in macchina coi miei genitori, poi ho potuto apprezzarne di nuove quando mia madre ha comprato “Stagioni”, “Parnassius Guccinii”, “Ritratti”. Ora, a tanti anni di distanza, amo ancora Guccini come un padre, al punto che ci sono sue canzoni che ascolto da una vita e che non conosco, non capisco e non mi sforzo di capire, perché sono lì da sempre, parte della mia famiglia, finché non mi accorgo di non sapere nemmeno di cosa parlano e provvedo.

Ma che gioia è stata scoprire, a partire da quegli anni, che l’uomo che tanto amavo per un affetto irrazionale, per imprinting, si trovava a buon diritto nella classifica dei miei musicisti preferiti!

Da capo, un’altra volta, mi sono innamorato della sua lirica così variabile nello stile, ma sempre unita nella chiarezza dei periodi, da una rustica sincerità narrativa. Ancora una volta l’ho sentito vicino, questa volta non come un padre con le sue favole, ma come un amico che mi raccontava di sé, dei temi che sentiva più vicini, dei suoi amori, delle sue delusioni, di come l’avanzare dell’età gli portava via forza, amici, gioie, amori, ma di come riusciva a superare queste cose, di come si può -e si deve- invecchiare serenamente, accettando il passare del tempo come necessario e naturale. Di come la vita meritasse di essere vissuta per le cose davvero importanti: l’amore, il sogno, la fantasia, la compagnia. Con lui ho reinterpretato eventi, riletto grandi romanzi romantici e non, da lui ho imparato, o forse in lui ho rivisto, un modo di vivere l’amore più quotidiano, meno irrazionalmente passionale, ma non per questo meno romantico. Con lui ho parlato di politica, ho rivissuto la vita dei grandi eroi della rivoluzione e ne ho scoperto la parte umana, ne ho vissuto il sogno e di esso mi sono emozionato, mi sono lasciato infervorare e sono tornato coi piedi per terra, sempre con lui. Nelle sue canzoni ho visto vasti paesaggi e grandi storie, ma anche l’intimo piacere di un momento a letto con la propria compagna, di una serrata al bar con gli amici. Ho provato la cosa più vicina a quello che può significare essere padre.

Dalla verità e l’incorruttibilità di Guccini ho imparato che si può dire no ai compromessi inaccettabili, ho scoperto che l’amore può non essere solo un dolore oscillante tra il petto e lo stomaco, ma un gioco, un tenero scherzo, per il solo giovamento degli amanti. Ho imparato ad aspettare con ansia l’incontro con una vecchia amica.

 

Ma forse la cosa più importante che ho capito ascoltando Guccini è che quasi tutto alla fine si risolve, in una maniera o nell’altra, e che vale sempre la pena di restare per vedere come va a finire.

 

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