Lettera

postato il 26 Set 2011 in Cazzi e mazzi personali
da Azazello

[Questo post è stato scritto in pullman in una maniera perversa per cui non vedevo ciò che scrivevo, quindi perdonerete eventuali errori attribuibili alla cosa. Era anche un momento un po’… non saprei dirlo, ma comunque non ho avuto il coraggio di rileggerlo per controllare che non facesse schifo, però so che è importante per me e quindi lo posto ugualmente!]

Quelli che mi conoscono meglio tra i nostri due o tre lettori (ciao ma’, ciao pa’) probabilmente sanno che ruolo ha rivestito un uomo di nome Francesco Guccini nella mia vita. La cosa interessante, o forse triste, del mio rapporto con lui è che ho iniziato ad apprezzarlo molto prima di avere delle buone ragioni per farlo, più perché la mia mente di bambino era ignara dell’immenso panorama musicale in cui avrei potuto pescare le mie passioni infantili che non per effettivi meriti della sua musica, forse. Tutto è cominciato con un CD che si chiamava “L’Italia del Rock”, forse parte di una serie uscita in edicola, una compilation di brani che avevano (o non avevano poi tanto) fatto la storia della musica italiana, grazie al quale mi sono innamorato delle prime due canzoni di Guccini che abbia ascoltato: “La Locomotiva” e “Un altro giorno è andato”. Certo, sono stato colpito anche da altre canzoni di altri autori, come “Pablo”, “Stalingrado”, “Ho visto un re”, “Vengo anch’io!”, “El Pueblo Unido”, “Tammurriata Nera”, “Contessa”, ma quelle due erano tutto ciò che mi serviva per rendere sopportabile, anzi piacevole, le 17 ore di auto che separavano la mia casa di Heidelberg da quella di mia nonna a Napoli, un altro classico della mia infanzia.

Per alcuni (pochi) anni la situazione è rimasta quella: “L’Italia del Rock” era la mia principale se non unica fonte di musica e quelle due canzoni bastavano a soddisfare qualsiasi esigenza potessi avere in merito. Poi mia madre ha compiuto 40 anni ed ha ricevuto in regalo due dischi di Guccini: “Guccini Live Collection”, in due CD, e “D’amore, di morte e di altre sciocchezze” (c’è chi dice che “Radici” sia il più bel disco di Guccini, lui compreso. Queste persone non hanno capito niente e, chiaramente, non hanno mai ascoltato “D’amore, di morte, e di altre sciocchezze”. Lui compreso). Con queste due nuove fonti la mia esperienza in materia si è più che decuplicata, facendomi scoprire nuovi brani che avrebbero occupato i più bei minuti musicali della mia tarda infanzia (e della mia vita). Anche in quei momenti non capivo cosa stavo ascoltando, anche se se in certi casi potevo avvertire l’atmosfera che la canzone voleva dare, il suo senso: la placida dolcezza di “Vorrei”, l’incedere del tempo di “Lettera”, l’amarezza celata nel riso del “Matto”. Ho cominciato a crescere e a capire qualcosa di più di ogni canzone, sempre durante i lunghi viaggi in macchina coi miei genitori, poi ho potuto apprezzarne di nuove quando mia madre ha comprato “Stagioni”, “Parnassius Guccinii”, “Ritratti”. Ora, a tanti anni di distanza, amo ancora Guccini come un padre, al punto che ci sono sue canzoni che ascolto da una vita e che non conosco, non capisco e non mi sforzo di capire, perché sono lì da sempre, parte della mia famiglia, finché non mi accorgo di non sapere nemmeno di cosa parlano e provvedo.

Ma che gioia è stata scoprire, a partire da quegli anni, che l’uomo che tanto amavo per un affetto irrazionale, per imprinting, si trovava a buon diritto nella classifica dei miei musicisti preferiti!

Da capo, un’altra volta, mi sono innamorato della sua lirica così variabile nello stile, ma sempre unita nella chiarezza dei periodi, da una rustica sincerità narrativa. Ancora una volta l’ho sentito vicino, questa volta non come un padre con le sue favole, ma come un amico che mi raccontava di sé, dei temi che sentiva più vicini, dei suoi amori, delle sue delusioni, di come l’avanzare dell’età gli portava via forza, amici, gioie, amori, ma di come riusciva a superare queste cose, di come si può -e si deve- invecchiare serenamente, accettando il passare del tempo come necessario e naturale. Di come la vita meritasse di essere vissuta per le cose davvero importanti: l’amore, il sogno, la fantasia, la compagnia. Con lui ho reinterpretato eventi, riletto grandi romanzi romantici e non, da lui ho imparato, o forse in lui ho rivisto, un modo di vivere l’amore più quotidiano, meno irrazionalmente passionale, ma non per questo meno romantico. Con lui ho parlato di politica, ho rivissuto la vita dei grandi eroi della rivoluzione e ne ho scoperto la parte umana, ne ho vissuto il sogno e di esso mi sono emozionato, mi sono lasciato infervorare e sono tornato coi piedi per terra, sempre con lui. Nelle sue canzoni ho visto vasti paesaggi e grandi storie, ma anche l’intimo piacere di un momento a letto con la propria compagna, di una serrata al bar con gli amici. Ho provato la cosa più vicina a quello che può significare essere padre.

Dalla verità e l’incorruttibilità di Guccini ho imparato che si può dire no ai compromessi inaccettabili, ho scoperto che l’amore può non essere solo un dolore oscillante tra il petto e lo stomaco, ma un gioco, un tenero scherzo, per il solo giovamento degli amanti. Ho imparato ad aspettare con ansia l’incontro con una vecchia amica.

 

Ma forse la cosa più importante che ho capito ascoltando Guccini è che quasi tutto alla fine si risolve, in una maniera o nell’altra, e che vale sempre la pena di restare per vedere come va a finire.

Un commento to “Lettera”

  1. avatar Cerbs ha detto:

    Anche io avevo “L’Italia del Rock”, e tutto ciò che dici è più che condivisibile. Peccato che io sentissi De Andrè durante i lunghi viaggi in macchina da piccolo e, di conseguenza, mentre tu almeno hai visto Guccini live io non ho potuto fare lo stesso…

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