Ancora sui luoghi comuni

postato il 8 Mag 2012 in Main thread
da Vobby

Questo post è un commento al post di Deluded Wiseman sui luoghi comuni, del quale si consiglia un’attenta lettura. Era diventato un po’ troppo lungo perché venisse letto come commento e si era parzialmente discostato dal tema originale proposto dal collega Autore

Non so se è svolgere la nostra personalità che ci rende umani. E’ una bella immagine quella dell’uomo considerato come unica creatura vivente capace di volta in volta di decidere dove, come, quando, perché e cosa fare. Questo ritratto può essere un ideale a cui tendere, e forse è anche questo il senso del post di Deluded Wiseman, che però non descrive la realtà dell’essere umano. Restando sui luoghi, così come le anatre migrano a sud durante l’inverno, così come i gatti defecano lontano da dove mangiano, così come le foche (sì, le foche, hasta siempre) devono stare a terra per trombare e rotolare e in acqua per cacciare, dimostrando la loro natura di implacabili predatori, così gli uomini di ogni epoca hanno diviso gli spazi fra i luoghi di lavoro, di allevamente dei figli, svago e tutto il resto. Possiamo vederla come una tendenza fisiologica all’irregimentarsi, non necessaria oggi che non siamo costretti a seguire le migrazioni dei mammuth per poterci nutrire, però c’è sempre stata, e, quindi, direi che è una cosa molto umana.
La cosa che condivido, è che questo forse non ci rende vivi. Perché, sì, la vita naturale, meramente fisiologica dell’uomo, è inscindibile (o almeno non è mai stata scissa) da una più o meno rigida separazione degli spazi. Tuttavia esiste una vita diversa, una vita caratterizzata, che è propria dell’uomo soltanto, che diverse epoche e luoghi non hanno mai conosciuto, che è la vita comunitaria, l’aspetto… politico della nostra esistenza. Perché io posso anche indossare un kilt e suonare la cornamusa sotto il pesco di quattro giornate, ma la piazza resterà la stessa, servirà sempre a far ubriacare i turpi e far passare le macchine, e, diciamocelo, ogni civiltà ha conosciuto i suoi scemi del villaggio, in fondo anche loro hanno sempre avuto il loro “spazio”.
Comunitariamente, però, io posso decidere che fare della piazza, decidere il paesaggio. E’ vero che tutte le creature viventi contribuiscono a modificare il paesaggio in cui si trovano, però la maniera in cui l’uomo è capace di farlo assume proporzioni troppo diverse per non essere definite uniche. Il paesaggio urbano ( o anche rurale, perché no) che si modifica in base alle scelte collettive di una comunità è la dimostrazione di una vita veramente viva e veramente umana al suo interno.
Non affiderei il cambiamento delle funzioni del luoghi alle nostre singolarità, perché io avrò sempre bisogno di mangiare e sempre voglia di trombare, e dovrò comunque dividere gli spazi di queste due nobili attività, perché non tutti potrebbero apprezzare che si scopasse a mensa, e poche fanciulle apprezzerebbero che si mangiassero polpette durante l’amplesso. Ciò che crea e modifica il paesaggio e la sua divisione sono le necessità e le volontà collettive, ed è la collettività che rende l’uomo umano.
Naturalmente collettivi, naturalmente comunitari. Forse non così tanto naturalmente, perché, ripeto, in fondo solo una piccola minoranza di civiltà ha deciso di dedicare spazi a un’agorà che decidesse come modificarli. Però se vogliamo cercare qualcosa di diverso dalla vita da schiavi addomesticati che svolgiamo per la maggior parte del nostro tempo, nella maggior parte dei luoghi in cui ci troviamo, chiusi nella nostra affollata solitudine, allora dobbiamo per forza riferirci alla nostra vita da uomini liberi, che invece esiste solo in una dimensione pubblica.
D’altra parte l’articolo 2 è chiaro, per non parlare dell’articolo 3: è nelle formazioni sociali che si deve svolgere liberamente la nostra personalità, e il pieno sviluppo della persona umana sarebbe impensabile senza “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, dei luoghi che siamo chiamati a condividere.

Momento di elevazione

postato il 8 Nov 2010 in Cazzi e mazzi personali
da Vobby

Il commento è mio, la poesia è, credo, di un allievo che non conosco. Mi sento una persona migliore dopo averla letta.

Lungo la via Aurelia                                                                                                                                                             Sanremo, 30 marzo 2005
(Tra Ospedaletti e Bordighera)

Gli alberi,
sulla vetta del monte,
dialogano
con le nuvole
in un paradiso
che a me
è precluso

Dal momento in cui la si legge, anche solo di sfuggita, non si può dubitare dell’estrema modernità di quest’opera. Nulla della sua forma è lasciato al caso, il significante assume un ruolo centrale che permette al lettore di comprendere al meglio il significato. La mia impressione è che il componimento sia costituito di versi così brevi perché il fruitore possa, anzi debba, leggerli singolarmente, assumendo a piccoli passi il messaggio della poesia, obbligato com’è a riflettere su ogni parola e sul suo perché.

Percorriamo dunque il cammino che il poeta ha tracciato per noi.

Gli alberi. Così isolata sulla pagina bianca la parola alberi ci porta a pensare a una poesia naturalistica, ad atmosfere dionisiache, nelle quali un Bardo, un Aedo, superiore a noi per studio e per natura, mosso da somma generosità, ci accompagna paziente, iniziandoci a segreti che non potremo e non potremmo mai possedere del tutto perché noi, porci così occupati a mangiar ghiande e rotolarci nel fango, non siamo tutt’uno con la Natura, siamo distanti dalla sua divinità, possiamo assaporarne la bellezza e la perfezione solo per brevi istanti, solo se aiutati dal Genio altrui.

Subito dopo scopriamo che gli alberi si trovano “sulla vetta del monte”, e questo istilla in noi il dubbio: questo elemento non è puramente descrittivo del paesaggio, perché altrimenti non sarebbe messo in risalto fra due virgole, allora qual è il significato che dobbiamo trarre da questo messaggio? La vetta è per sua natura lontana, solitaria, difficilmente raggiungibile; il Maestro ha dunque deciso di lasciarci al limitare del bosco, lontano dalla conoscenza, perché è stanco di essere circondato da individui non degni di lui? Ci sta dicendo,disgustato dall’idiozia che gli sta intorno, di star lontani da lui, dal regno in cui solo pochi eletti possono entrare? O forse, forse, possiamo permetterci il lusso di un dubbio all’apparenza feroce e maligno, ovvero: che la vetta sia lontana dal poeta stesso? Questo cambierebbe tutto!

Ecco un passaggio davvero fondamentale. Gli alberi dialogano! Essi hanno riconosciuto qualcuno o qualcosa come loro pari, degno di ricevere insegnamenti ma anche di impartirne. Come abbiamo potuto dubitare del genio del Poeta? La vetta è tale solo per noi. Al lettore non resta che chinare la testa con espressione contrita, versando lacrime colme di vergogna e risentimento, unici sentimenti dei quali è all’altezza.

E’ con le nuvole che gli alberi dialogano, e il lettore sprofonda nell’angoscia. Cosa significa questo, egli si chiede? Perché le nuvole, della vetta ancor più lontane e irraggiungibili? Perché l’autore vuol costruire ancor più solide mura fra noi, maiali, e Lui, il Genio? Perché tanta crudeltà, schiantata fragorosamente davanti ai nostri occhi ancor rossi dal pianto? La vista della nostra miseria ti è così insopportabile, sommo, che godi nel vederci disperati? Lo meritiamo, ma ti imploriamo di usare clemenza!

In un paradiso! Questo crescendo ci è insopportabile! “Basta, smettila!” urliamo all’unisono! Non è colpa nostra questo fango, non è merito tuo quella luce! Tu, poeta, ti permetti l’arroganza di guardare il sole con le palpebre ben spalancate, stai osando la conquista dell’Empireo, mosso dall’impetuoso furore di cui ti senti pervaso non ti accontenti della vetta del monte, della tua condizione di Orfeo capace di far danzare piante e rocce, di ammansire le belve, no! Ti odiamo, perché non lo stai facendo per noi! Per te stesso ora hai abbracciato il culto di dei luminosi, e stai per toccare con mano l’assoluto!

Il “me” si impone presuntuoso sulla scena, e ci obbliga alla sua ingombrante presenza!
A te cosa?!? Vuoi narrarci del nettare e della fragrante ambrosia che Ebe versa direttamente nella tua tracotante bocca? Accomodati!

No –diciamo tutti sommessamente- non ci credo. Vedo il fango scivolare via dal mio corpo, il suo fetore si perde nell’oblio. Siamo uomini adesso!
Altri hanno ignorato il sudore della fronte e la dignità della fatica, l’umanità è stata rappresentata con tinte cupe, sozza e lercia, agli angoli del quadro, mentre Eroi, Poeti, Indovini e Saggi , in grandi piazze o sulle prue delle navi, affermavano la loro superiorità. Ma tu no, poeta, tu preferisci abbandonare la vuota maestà di troppi tuoi predecessori, vuoi urlare al mondo che gli uomini son tutti uguali.

I punti sospensivi sono il cardine dell’opera. Ci si aspettava di trovarli, dopo questa manifestazione di umiltà. Comprendiamo che non siamo umili per la nostra incapacità di raggiungere le nuvole, ma perché tentavamo l’impresa sbagliata. Capiamo quel che stai facendo ora.

Sconfitto dall’altezza della vetta e dalla distanza del cielo, comprendi la verità e il tuo sbaglio. Volti le spalle alla luce divina, e così facendo vedi il tuo prossimo. Lì è la gloria, la Gloria dell’Uomo.

Porgi  la mano a chi tentava la scalata subito dietro di te, e gli riveli che il verbo non è presso dio, che il paradiso era in terra e che lì si deve ricostruire.

 

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