Capitolo I: Non ascoltare la musica mentre cammini

postato il 19 Nov 2010 in Giocoaperitivo
da Azazello

[Ho provato più volte, e a più riprese, a dedicarmi alla narrativa, non di rado con la convinzione che la mia capacità di raccontare migliorasse al passo di quella di descrivere, convincere e spiegare, ma sempre con l’inevitabile disillusione che accompagna un lettore che si improvvisa scrittore. Ho deciso, comunque, di cimentarmi un’ultima (ma chi voglio prendere in giro?) volta nella produzione di un racconto, cercando di mantenere un certo grado di coerenza e di non scadere in un facile ricettacolo di assurdo che i lettori meno avveduti potrebbero scambiare per arguto stratagemma narrativo.]

Andrea non era assolutamente adatto alla scuola. Non poteva sopportare l’idea che tutto fosse così tristemente reale e statico: lo annoiavano i malinconici capoluoghi piemontesi, i temi sulla mamma, le poesie di Carducci da mandare a memoria, le tabelline e le divisioni, le lezioni di storia sull’evoluzione dell’uomo delle caverne; eppure subiva la tortura di 5 ore di scuola ogni giorno, intrappolato tra quattro mura grigie, lontano dall’avventura e dall’azione. Fu così che Andrea scoprì che dove non potevano arrivare le sue gambette poteva arrivare la sua fantasia, e presto i fiumi del Piemonte coi loro stupidi affluenti furono scenario di incredibili battaglie, vie di transito favorita dai contrabbandieri di cioccolato che transitavano quotidianamente sul Po, alla mamma dei temi cominciarono a crescere prima i peli, poi i denti, le ali e gli artigli, le poesie di Carducci improvvisamente venivano interrotte da una sparatoria o da un arrembaggio, gli insopportabili uomini delle caverne fuggivano all’impazzata, terrorizzati da mastodontici mammut. Naturalmente con la fantasia arrivarono i problemi (principalmente per quella storia della mamma alata), con i problemi gli ostacoli, con gli ostacoli ulteriore alienazione… e così, tra un ostacolo e una fantasia, l’adolescenza. Diciamo che nessuno avrebbe scommesso un soldo su di lui: barbuto, svogliato, con la testa fra le nuvole, sempre a leggere storie fantastiche e a inventarne di più deliranti, mentre Agamennone nelle sue versioni veniva spedito in Svizzera e Kant diventava un vecchiaccio scontento di tutto con grande orrore della sua professoressa di filosofia. Ed è proprio qui che inizia (e finisce) la nostra storia: precisamente in un giorno a caso del suo ultimo anno di liceo, alle nove meno venti circa di un mattino qualsiasi, al ritmo disordinato dei suoi passi di ritardatario consapevole e rassegnato, lungo la strada che decise imprevedibilmente di percorrere proprio in quel giorno, come aveva fatto negli ultimi 4 anni.

Andrea non si era accorto, probabilmente a causa della battaglia tra elfi e orchi che si stava perpetrando a tempo di musica nella sua testa, che già da qualche metro due donne basse e dalla pelle scura lo stavano seguendo, quindi potete immaginare il suo sgomento quando la più anziana delle due gli afferrò il braccio urlando qualcosa, con voce non esattamente aggraziata:

«Eh?» chiese perplesso il ragazzo, sfilandosi l’auricolare

«Mi hai sentito! mi hai rubato la collana, disgraziato!» gli rispose esauriente la donna

«Ma che dice? mi lasci stare!»

Divincolatosi dalla stretta della vecchia, Andrea affrettò il passo e si decise a ignorare le due donne che continuavano a seguirlo biascicando qualche insulto ogni tanto e maledicendo più o meno tutto il creato, e in un primo momento la strategia si rivelò efficace, perché le seminò in poco tempo. Questo incontro acquistò una reale rilevanza solo più avanti nel tempo (diciamo quattro ore dopo, mentre tornava a casa), quando si trovò accerchiato da quattro ragazzoni robusti dalla pelle scura e dal vestiario peculiare, che lo invitarono cortesemente a deviare dalla sua solita strada per fare una passeggiata di qualche ora in loro compagnia, offerta che lui non si sentì di rifiutare e che lo portò di nuovo al cospetto delle due donne, all’interno di un capiente camion contenente un po’ di sedie, un frigo da automobile, qualche cassa e un tavolo.

«Sei un ladro e la pagherai! restituiscimi la collana!», gli intimò ancora la più anziana

«Non so di cosa parla! Davvero!»

«Certo che non lo sai, razza di cretino! Dopo ottant’anni in quello stato, come potresti? Questo non cambia la tua responsabilità di ridarmi la mia collana, però, quindi da oggi torni a stare con me»

Ad Andrea sarebbe piaciuto molto ribattere, ma sembra che l’improvviso dolore alla nuca e il buio l’avessero distratto da quest’idea perlomeno fino al suo risveglio, circa sei ore dopo, quando urlò:

«Ma lei è pazza! lasciatemi andare!»

Ad un energumeno che evidentemente non aveva assolutamente questa intenzione, o almeno così poteva sembrare a giudicare dalla lunga striscia di metallo appuntito e affilato che si prolungò rapidamente dal suo braccio fino al collo del giovane.

«Bene, sei sveglio. Andiamo», sentì dire seccamente da una voce profonda, mentre il corpo estraneo veniva rinfoderato.

«Dove…?»

«Di sopra», rispose l’omone mentre lo strattonava per un braccio senza troppi complimenti.

Solo in questo momento Andrea si preoccupò di dare uno sguardo intorno a sé, cosa che lo portò alle seguenti osservazioni: si trovava in una cabina di dimensioni piuttosto ristrette, dalle pareti, i pavimenti e il soffitto in metallo color cinabro, senza finestre; riusciva a intravedere i punti di congiunzione delle lastre, strettamente saldati da rivetti grossi come carote; era stato delicatamente sollevato da una specie di branda piuttosto scomoda; aveva dolore alla nuca; l’intera stanza sembrava oscillare lentamente avanti e indietro; questi dettagli, il suo grande acume e il fatto che il suo compagno aveva una maglietta a righe e un discreto tatuaggio sull’enorme avambraccio scuro gli fecero balenare in mente l’idea bizzarra di essere su una nave.

Andrea ebbe modo di approfondire la sua idea attraversando un corridoio simile alla stanza da cui proveniva, tappezzato di ritratti e bandiere di vari paesi, illuminato da una serie di candelabri dorati e inframezzato da porte di legno dalla cima arrotondata, fino a raggiungere una scala a chiocciola che salì per sbucare in una sala parecchio più grande della sua stanza e interamente rivestita di legno. Qui la prima cosa che notò fu l’enorme, vergognosamente barocco lampadario d’oro che avrà contenuto almeno un centinaio di candele; la seconda fu un grosso tavolo cosparso di grandi fogli, righelli, compassi e strumenti strani; la terza fu la maledetta vecchia di qualche ora prima, vestita in modo indescrivibile (sembrava indossare abiti gitani, ma aveva una specie di maschera da sub alzata sulla fronte e degli stivaloni che avevano l’aria di pesare almeno un paio di chili l’uno) e intenta a scribacchiare su uno dei fogli, sempre accompagnata dalla sua silenziosa e giovane accompagnatrice, che assisteva seduta in disparte; l’ultima cosa che vide, prima che la sua attenzione fosse di nuovo monopolizzata dalla donna, fu tanto, tanto azzurro attraverso un finestrone largo quanto l’intera sala alle spalle del tavolo e della sua ospite.

«Ah, eccoti qui. Maria ti mostrerà di cosa ti occuperai durante il viaggio»

Ad Andrea vennero in mente, tutto d’un tratto, tutte le incongruenze di questi eventi: si trovava in un luogo sconosciuto, probabilmente in mare, con persone mai viste prima (ma armate e decisamente non amichevoli) e, come ebbe modo di scoprire proprio mentre rifletteva su questi aspetti, non aveva più il telefono, le chiavi e il portafogli, come d’altra parte i pantaloni e la camicia che indossava quel mattino, sostituiti da una maglietta e un pantalone di almeno due taglie più grandi e sicuramente più grezzi nella fattura. La quantità di informazioni poco gradevoli che gli affollava la testa era grande, il che forse spiega perché si limitò a chiedere:

«Viaggio?»

«Sì, viaggio, per la miseria! Nemmeno il tuo bisnonno era sveglio, ma tu al confronto sei un maledetto bradipo!»

Bisnonno? La porzione di memoria che Andrea aveva riservato al suo bisnonno conteneva le uniche due informazioni che erano riuscite ad attecchire nella sua mente di bambino irrequieto: il bisnonno era morto giovane; il bisnonno aveva una bandiera dei pirati appesa in camera. A questo punto potete capire che la mente di Andrea stava vagando libera e felice per le strade dell’assurdo: già vedeva un omaccione barbuto, con la benda sull’occhio e vestito da pirata che urlava qualche frase piratesca con accento improbabile mentre sparava all’aria ridendo sguaiato, già lo vedeva accendere micce e puntare cannoni, lanciare rampini e andare all’arrembaggio…

«No, tuo nonno era un piccolo bastardo irriconoscente come te, spelacchiato e lento»

Andrea, che effettivamente non aveva detto niente, era interdetto e anche un po’ offeso.

«Te l’avevo detto che sarei tornata a prenderla anche fra cent’anni, la mia collana, anche a costo di tormentare tutti i suoi discendenti fino alla fine del mondo. Ora so dov’è la collana, ma sembra che solo tu possa prenderla, il che rende il nostro incontro molto fortuito per me e molto più spiacevole per te»

Andrea era pronto ad obiettare, ovviamente, che lui non sapeva di nessuna collana, ma la vecchia continuò:

«E ti assicuro che sai tutto, stupida imitazione di pirata che non sei altro, devo solo tirartelo fuori»

A questo punto il ragazzo, sbloccato forse dal momento di instupidimento, strillò stizzito:

«Ma insomma! Io non so di che state parlando! Cosa volete da me?!»

«In questo momento», rispose pacatamente l’ospite, tornando alle sue attività, «Dato che devo cercare di imbrigliare il libeccio prima che diventi troppo forte e ci faccia capovolgere e morire tutti, direi che non voglio niente di speciale. Maria, accompagnalo»

L’energumeno, che a quanto pare si chiamava proprio Maria, accompagnò gentilmente il braccio di Andrea (che si sentì in dovere di seguire il suo arto) ad una porta che dava sulla parete opposta a quella del finestrone, la spalancò con un calcio e lo trascinò con sé sul ponte della nave, dove gli mise in mano uno straccio e un secchio commentando:

«Attento a non cadere: è un bel volo da quassù»

Il ragazzo si guardò ancora intorno ed ebbe modo di notare i tre grossi alberi con le vele spiegate, molti altri marinai dalla pelle scura e l’aria poco amichevole, varie botti, un grosso buco al centro del ponte, scale di corda che congiungevano gli alberi alle balaustre ai lati del ponte e quattro giganteschi palloni aerostatici che sembravano… reggere la nave. Non ebbe bisogno di sporgersi per capire che la nave stava volando poco sotto le nuvole.

«Il ponte è grande, farai bene a darti da fare»

*   *   *

Alcune note prima di terminare il post: 1) doveva essere più lungo e più chiaro su alcune cose, per come l’avevo pensato, ma alla fine è venuto fuori questo per la fretta e la mancanza di ispirazione 2) i temi sono stati rispettati, anche se voi non ve ne siete accorti perché non capite quello che scrivo, ma non certo perché io non sono riuscito a esprimermi 3) ok, il cinabro ce l’ho messo un po’ a caso. Forse anche i candelabri. Dovevano avere entrambi il loro spazio (il cinabro sarebbe stato giustificato durante la spiegazione della lega metallica di cui era fatta la nave e i candelabri sarebbero stati oggetto di un simpatico momento di ilarità).

Per quanto riguarda chi scriverà il prossimo pezzo, direi che i suggerimenti sono abbastanza evidenti nell’ambito del testo, ma voglio esplicitare quelli che secondo me sono più importanti per la prosecuzione della storia in una direzione che mi piace più di altre:

1. L’occultismo

2. L’immortalità

3. La supremazia

Per veri arditi – Parole e digressioni:

a. Alettone

b. Stagno

c. Curry

d. Chitarra

e. Pellicano

Solo per veri eroi (che vorrei scoraggiare fortemente, visto che difficilmente potranno non pregiudicare la qualità complessiva del racconto [che già inizia come inizia, insomma]):

I. Il post deve essere un unico, lungo palindromo

oppure

II. Il post deve contenere due storie, una accessibile leggendo il post normalmente e l’altra leggendo solo le righe dispari

Scusate il ritardo, la lunghezza e l’inadeguatezza.

Metafora del determinismo parte 3°

postato il 5 Nov 2010 in Cazzi e mazzi personali
da Vobby

Ho scritto di getto questo post più o meno a metà agosto in Bretagna. Forse avrei qualche cosetta da cambiarci, non so, ma preferisco proporvelo così com’è nato.

E’ necessario un chiarimento: io credo nell’esistenza della libertà. Per discutere di essa dobbiamo, però, metterci d’accordo con la sua definizione.

Il maggior teorico del determinismo, Spinoza, lasciava spazio nel suo sistema a un essere libero: Dio.
“Dio è libero nella misura in cui il suo agire non è determinato da null’altro che da se stesso”. Cioè, l’agire di Dio, che in termini spinoziani corrisponde al corso degli + (crux disperationis, non capisco la mia scrittura. Ci sarà scritto “eventi”?) di tutto l’universo, è certamente necessario, eppure autonomo, perchè non c’è niente se non le leggi che regolano l’universo ,cioè Dio, a muovere l’universo, cioè ancora Dio. Questo darà la possibilità a Schelling di teorizzare l’identità di idealismo e realismo nell’assoluto.

Ora, l’uomo. A mio parere, fra l’essere che è tutta la sostanza, e uno che ne occupa un minuscolo pezzetto, esiste una differenza quantitativa, e non qualitativa, allo stesso modo di come non c’è differenza qualitativa fra un sasso e la montagna, una cellula e un tapiro, una buccia e una banana.
Quindi, se la libertà di Dio  sta nell’autonomia necessaria, quella dell’uomo può essere identica (se non maggiore: l’uomo ignora le conseguenze delle sue azioni, e questo accresce la sensazione di libertà).

Io concepisco la libertà come possibilità di fare ciò che si vuole. Libertà come potenza. Il mio “determinismo” sta nel considerare “ciò che si vuole” come necessariamente causato, ma la libertà di agire di conseguenza non mi è negata da ciò.
L’uomo che ha avuto, per esempio, un’educazione di sinistra e vuole votare per un partito operaio, non può farlo sotto una dittatura militare fascista, quindi saremo tutti d’accordo nel considerarlo non libero. L’uomo che invece può votare per il partito che preferisce può farlo in una buona democrazia parlamentare, quindi è libero di agire ANCHE SE il suo voto è determinato dalla sua educazione.

L’educazione qui assume un ruolo fondamentale: essa ha il ruolo di forgiare uomini che possono essere interamente liberi senza nuocere al prossimo.
Prima di dire cose tipo “l’uomo è per natura violento ed egoista” (ci si legga il capitolo di OP intitolato Justice Will Prevail!*) ci si pensi bene, perchè se si sottovaluta l’importanza dell’educazione, non si considerano le differenze assurde fra un uomo nato in Italia e un nato in Corea del Nord, nè la distanza che separa Einstein da un cavernicolo, ma anche semplicemente il filantropo e il misantropo.

Dire che l’uomo è una corda tesa fra una bestia e l’oltreuomo, ma anche fra una fiera e un angelo, è proprio vero (facoltativo: vi sentite più simili a madre Teresa di Calcutta o a un truzzo? Dura eh?), l’educazione serve a forgiare individui che preferiscano “l’angelità” alla bestialità, e la libertà in questo caso consiste nella possibilità di realizzare questa propensione.

*”Children who have never seen peace, and children who have never seen war, have different values. Pirates are evil? Marines are righteous? Justice will prevail?!? Sure! Whoever wins this battle , will become justice!”

La rivoluzione dell’eguaglianza. Così magari mf ci degna di un commento.

postato il 29 Set 2010 in Cazzi e mazzi personali
da Vobby

La rivoluzione dell’eguaglianza

L’intervento di Stefano Rodotà al terzo Festival del diritto di Piacenza.

di Stefano Rodotà, la Repubblica, 22 settembre 2010

Quando, alla fine del Settecento, sulle due sponde del Lago Atlantico le dichiarazioni dei diritti pronunciano le parole «tutti gli uomini nascono liberi e eguali», si manifesta pubblicamente la fondazione di un’altra società e d’un altro diritto, e “la rivoluzione dell’eguaglianza” diviene un tratto caratteristico della modernità. Per l’eguaglianza comincia una nuova storia, nella quale si riconoscono riflessioni millenarie e diffidenze mai sopite, con una ritornante contrapposizione della libertà all’eguaglianza. È una vicenda che attraversa due secoli, non è conclusa, nel Novecento ha conosciuto tragedie, ma ha pure generato una promessa che ancora ci sfida e attende d’essere adempiuta.

Con questi dilemmi si misurano, nel momento fondativo della Repubblica, i costituenti italiani. Riconciliare libertà e eguaglianza è tra i loro obiettivi. E nasce un capolavoro istituzionale, l’art. 3 della Costituzione, frutto di un incontro tra consapevolezza politica e maturità culturale oggi impensabile. Muovendo da qui, si possono indicare sinteticamente alcuni itinerari da seguire perché davvero si possa essere liberi e eguali.

1) Un esercizio di memoria, anzitutto. La triade rivoluzionaria «libertà, eguaglianza, fraternità» vede precocemente dissolto il legame tra libertà e eguaglianza dal ruolo attribuito alla proprietà (Napoleone, nel proclama del 18 Brumaio, parlerà di «libertà, eguaglianza, proprietà»). La proprietà si presenta come presidio della libertà: solo il proprietario è davvero libero, e così torna il germe della diseguaglianza che sarà all’origine delle tensioni dei decenni successivi.

2) Proprio il tema delle diseguaglianze economiche, e più in generale “di fatto”, caratterizza l’art. 3 della Costituzione, dove si prevede che compito della Repubblica sia quello di rimuoverle. In questo riconoscimento dell’eguaglianza sostanziale, che segue quello dell’eguaglianza formale, si sono visti «due modelli contrapposti di struttura socio-economica e socio-istituzionale», «l’uno per rifiutarlo, l’altro per instaurarlo». Ma non possiamo più dire che si tratta di una norma a due facce, l’una volta verso la conservazione dell’eredità, l’eguaglianza formale; l’altra rivolta alla costruzione del futuro, l’eguaglianza sostanziale. Già l’inizio dell’art. 3, che parla di dignità sociale, dà evidenza a un sistema di relazioni, al contesto in cui si trovano i soggetti dell’eguaglianza, poi esplicitamente considerato dalla seconda parte della norma. Questa lettura unitaria dell’articolo non ne depotenzia la forza “eversiva”, ma dice che la stessa ricostruzione dell’eguaglianza formale non può essere condotta nell’indifferenza per la materialità della vita delle persone. E la concretezza dell’eguaglianza ha trovato riconoscimento nella versione finale della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dove il riferimento astratto “tutti” è stato sostituito da “ogni persona”.

3) Il riferimento alla dignità dà ulteriori indicazioni. Descrivendo il tragitto che ha portato all’emersione dell’eguaglianza come principio costituzionale, si è parlato di un passaggio dall’homo hierarchicus a quello aequalis. Ora quel tragitto si è allungato, ci ha portato all’homo dignus e la rilevanza assunta dalla dignità induce a proporne una lettura che la vede come sintesi di libertà e eguaglianza, rafforzate nel loro essere fondamento della democrazia. L’antica contrapposizione tra libertà e eguaglianza è respinta sullo sfondo dalla loro esplicita associazione nell’art. 3. A questo si deve aggiungere l’«esistenza libera e dignitosa» di cui parla l’art. 36. Dobbiamo concludere che l’ineliminabile associazione con la libertà è la via che immunizza dagli eccessi dell’eguaglianza e dalle ambiguità della dignità, che tanto avevano inquietato nel secolo passato e che proiettano ancora un’ombra sulle discussioni di oggi?

4) L’eguaglianza oggi è alla prova delle diversità, e più radicalmente della differenza di genere. La Carta dei diritti fondamentali «rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica» e stila l’elenco fino a oggi più completo dei divieti di discriminazione. Il rispetto delle diversità diventa così fondamento dell’eguaglianza, in palese connessione con il libero sviluppo della personalità, dunque con una rinnovata affermazione del nesso tra eguaglianza e libertà. E l’eguaglianza si dirama in due direzioni. Da una parte, si presenta come rimozione delle cause che producono diseguaglianza; dall’altra, come accettazione/legittimazione delle differenze, rendendo esplicita la sua vocazione dinamica, “inclusiva”.

5) Si distingue tra eguaglianza delle opportunità o dei punti di partenza e eguaglianza dei punti di arrivo. Negli ultimi tempi, ponendo l’accento sulla difficoltà delle politiche redistributive, si è quasi cancellato il momento dei risultati con un riduzionismo improponibile. Un solo esempio: per la tutela della salute si può prescindere dall’effettiva disponibilità dei farmaci? Altrimenti si rischia di consegnare al cittadino “eguale” una chiave che apre solo una stanza vuota.

6) L’eguaglianza riguarda l’accesso ai beni della vita. Alla conoscenza, superando ogni “divario”, e non solo quello digitale. Alla salute e al cibo, che non possono essere affidati alle disponibilità finanziarie. Al lavoro, che non può subire le esigenze della globalizzazione fino a cancellare la dignità della persona. Altrimenti, il peso delle diseguaglianze, associato alla pura logica di mercato, fa rinascere la cittadinanza censitaria. E la disponibilità crescente di opportunità tecnologiche, l’avvento del post-umano, impongono una attenzione forte per eguaglianza e dignità, insieme a una libertà declinata come autodeterminazione.

7) L’associazione di eguaglianza, libertà e dignità può metterci al riparo dal rischio dell’eguaglianza assoluta o estrema, che dissolve la società e attenta ai diritti delle persone. Ma le difficoltà antiche e nuove delle politiche egualitarie, la pressione delle identità possono indurre ad un pericoloso realismo che accantoni l’eguaglianza come inservibile. Errore politico e culturale clamoroso. La costruzione infinita della persona eguale rimane tema ineludibile. L’eguaglianza non significa solo divieto di leggi ad personam, ma garanzia del legame sociale. Proprio quando è negata, è lì ad ammonirci, a inquietare le coscienze. Rimane un potente strumento di azione culturale e lotta politica, “eversivo” rispetto a ogni tentativo di restaurare gerarchie sociali e di distorcere la democrazia.

 

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