Positivi e componenti: storia di una Formula Magica.

postato il 16 Set 2011 in Cazzi e mazzi personali
da Deluded Wiseman

Onde evitare che Voyager, Mistero, l’Albero azzurro e altri programmi della stessa risma si lancino in elucubrazioni e strampalate teori sul significato recondito dell’arcana formula alla quale il titolo del mio ultimo post sembra fare riferimento, mi vedo costretto a giuocare di anticipo, illustrando rapidamente, non solo come venni a conoscenza della suddetta fomula, ma anche, e soprattutto, quali siano le sue origini. Appresi dell’esistenza dei magici versi da un marinaio orbo di Katmandu, che, in seguito ad una sconfitta ad Halo, si è visto costretto a consegnarmi in pagamento un lercio manoscritto che diceva di aver a sua volta ottenuto da un monaco trappista di Canicattì.

Dubbioso, accettai il manoscritto, capendo che il povero diavolo non aveva altro da darmi, se non il suo occhio di vetro scheggiato. Una volta lettolo, al caldo del mio letto nella locanda, appresi del segreto destinato a rivoluzionare il mondo dei giochi di carte.  Ma basta dilungarsi; molto meglio delle mie parole sapranno fare quelle dell’anonimo autore del manoscritto:

Barcellona, 1711

A quel punto del gioco, ero già ubriaco. Ero ancora in relativo  possesso delle mie facoltà mentali, solo una buffa ridarella, un bruciore allo stomaco e una generica incapacità di comprendere ed  elaborare le connessioni fra gli eventi del gioco, palesavano la penosa ed ebbra condizione nella quale versavo ormai da giorni.  Ero approdato al porto di Barcellona solo quattro lunghissimi giorni prima, pronto ad avviare una reddititizia attività commeciale, sfruttando il gruzzolo che ero riuscito a tirare su vendendo giaguari ai ricchi  Maraja del Sud-est asiatico.  Allora, non potevo certo immaginare come la febbre del gioco mi avrebbe rubato, in brevissimo tempo, non solo i soldi duramente guadagnati, ma anche la salute. E dire che non sono mai stato un gran giocatore; eppure, il gioco che in quegli anni imperversava in Catalogna aveva qualcosa di magnetico, un fascino infernale al quale era impossibile sfuggire. Non aveva un nome ufficiale; ma i più, nelle bettole, lo chiamavano “Arkamon”.  Era un empia fusione fra due giochi celebrei già da tempo, due giochi che si erano portati nel baratro i fegati di mezza Europa: “Uno alcolico”, e “King’s”.  Semplicemente, “Arkamon” univa l’esagerata propensione al bere e l’impietosità verso le distrazioni dell “Uno alcolico”, alla follia normativa del “King’s”. E provate voi a tenere il conto dei turni e a ricordarvi di chiamare i vostri compagni di gioco con appellativi ridicoli, dopo giri e giri passati a subire quei dannati “+4” e a bere i relativi, dannati anch’essi, sorsi. Io, personalmente, non ci riuscivo. E così, da quattro giorni ormai, mi trascinavo di balera in balera, nutrendomi di baguettine catalane e zumi di frutta per risparmiare, e passavo le nottate a sbronzarmi e perdere soldi a quel diabolico gioco. Anche quella sera, non era diverso: non vi riuscirà, dunque, difficile capire perchè, giunti ad uno stato avanzato della partita e della mia ubricatura, io non volessi arrendermi alla mancanza di carte blu dalla mia mano, e al sorso di birra calda che ne sarebbe stata la conseguenza. Così, poggiata la mano sul mazzo, preparandomi a pescare, iniziai a pensare, a sperare, a pregare, per Dio, che ci fosse qualcosa dietro al Gioco, una mente, un pensiero, un Cuore delle Carte! Perchè come poteva mai essere che fosse solo il Caso a regolare tutto, come potevano le umane sventure e le umane fortune dipendere solo dal casuale ordine dei turni e dalle ancora più casuali posizioni delle carte del mazzo? Poteva non esserci alcuna misteriosa forza, ma solo l’impietosa fatalità? Io, in quel momento, mi rifiutavo di crederlo. E proprio allo Spirito che si celava, doveva celarsi, dietro a quel mazzo e ad ogni altro mazzo di carte nel mondo, io fortissimamente mi appellai in quei drammatici momenti, la mano ancora poggiata sopra alla pila di carte. Fu solo la poco cortese esortazione di uno dei miei compagni, non saprei dire chi, che mi scosse dal mio assorto sperare. Ed a quel punto, alzati gli occhi, le parole vennero fuori da sole: “Carta..tu che sei positiva e componente, color del cobalto..!” Gli altri giocatori mi guardavano nella tipica maniera in cui un ubriaco guarda un ubriaco credendonosi meno ubriaco di lui; io, da bravo ubriaco, me ne fregai: girai la carta, e rimasi così, la mano rivolta al cielo e la carta bene in vista. Con un ghigno serafico fissai i miei avversari negli occhi, uno ad uno, osservando compiaciuto nei loro occhi la variopinta gamma di emozioni che va dall’incredulo all’irato;  Eduardo, l’alchimista italiano, sembrava aver visto un empio miracolo con quei suoi occhi ebbri che dovevano aver osservato qualche intruglio non prettamente alchemico di troppo; Lukas  emise un rutto di disappunto dalla sua un tempo pregiata ugola, famosa in tutti i regni alemanni per la squisitezza dello yodel che sapeva partorire, prima di essere devastate dal fumo e dall’alcol; Matja, invece, quella specie di saltimbanco russo, sembrava covare il risentimento più vivo per ciò che era accaduto; dal canto suo, Il-al-rhia, l’ ispano-marocchina che nella vita di tutti i  giorni guidava con pugno di ferro una feroce banda di briganti mori, sembrava pronta a mozzarmi la testa da un secondo all’altro. Senza smettere di sorrdiere poggiai la carta, un 7 di un glorioso e scintillante blu cobalto, sul mazzo, e assaporai le imprecazioni che in quattro idiomi differenti, dei quali neanche uno mi era comprensibile, si levavano dal tavolo; e il gioco continuò.

Ormai tenere il conto dei turni era diventato davvero difficile, ad ogni momento l’un l’altro ci si accusava impietosamente di distrazione, e non a torto; e poi era quella fase del gioco in cui tutti hanno poche carte, ed è difficile che passi un giro senza che qualcuno debba pescare. Ma è proprio qui che io mostrai il mio asso nella manica: la formula continuava, incredibilmente, ma forse non tanto, a funzionare.

“Carta tu che sei positiva e componente, color dell’amaranto..”; “Carta tu che sei positiva e componente, color dello zaffiro;  “Carta tu che sei positiva e componente, color dello smeraldo..”; mi bastava semplicemente recitare questa semplice formula al momento di pescare, e mai, mai una solo volta in quella partita, fui costretto a passare il turno. Magia? Fede? Fortuna non di certo. Nè trucchi o inganni di alcun tipo, lo posso giurare sul mio onore, se questa parola ha ancora un qualche valore da quando spreco le mie ore nelle bettole. Lo posso giurare sulle Carte e sull Azzardo, su questo di certo nessuno mi accuserà di giurare alla leggera. Eppure, non tutti sembravano convinti della mia onestà, e ci mancò poco che non mi trovassi la gola aperta da un orecchio all’altro per mezzo di un arruginito pugnale ricurvo ornato di opale e madreperla. Solo grazie all’italiano, il cui senso scientifico, ancorchè offuscato,  gli aveva reso evidente l’impossibilità di truccare il mazzo con tale finezza, si riuscì a placare la barbara furia dell’islamica, e a convincerla che non ero un abile baro. E così, salvata la testa, conclusi in pochi turni la partita, poggiando sul mazzo anche la mia ultima carta, un bel 3 blu.  Mi aggiudicai non solo un gruzzolo che mi avrebbe permesso di continuar a giocare e, insieme, sostentarmi, ma anche una gloriosa vittoria sulla concezione che dietro un gioco di carte non ci sia che il caso. Io ormai ero convinto del contrario, e forse anche Lukas  e Matja iniziavano a comprenderlo, almeno a giudicare dall’atteggiamento rispettoso che mostrarono nel pagarmi, in ruolo della scorbutica riluttanza che mi sarei aspettato. Perfino quella pazza cagna infedele, perfino lo scienziato, sembravano aver capito che non solo non si trattava di una truffa, ma che poteva esserci qualcosa di più del mero gioco. 

E poi? E poi, finita una delle due partite più importanti della la mia vita, continuai a giocare e a viaggiare, fiducioso nel potere che mi aveva aiutato. Venezia, Marrakesch, Istanbul, Samarcanda, Katmandu, Parigi; poker, blackjack, arkamon, ramino; le sale da gioco di mezzo mondo conosciuto, e  i tavoli di tutti i giochi in cui ci fosse da pescar carte, conobbero me e la mia formula. Ovunque destai stupore, incredulità, a volte rabbia, altre volteil più puro entusiasmo; e ovunque riuscii a riempirmi le sacche d’oro. Ma non abbandonai il gioco d’azzardo:  dentro di me ben sapevo, c’era una voce che me lo diceva chiaramente,  che se avessi smesso di sguazzare nel lordume delle balere e arricchirmi a danno dei miei malcapitati avversari, sarei riuscito a tenere stretto il gruzzolo per ben poco.

E così,  un giorno come un altro, decisi di testare la mia abilità, o comunque si voglia chiamarla, nelle sale da gioco al di là dell’oceano.  Pensvo che la giovane terra delle opportunità molto avrebbe potuto offrire ad un giocatore affamato di vittoria.  E probabilmente, molto avrebbe avuto da offrire a qualcuo il cui stile non fosse stato così duramente osteggiato dai coloni. Invece, i frequentatori dell’ Jack in the Box Saloon di Newark, New Jersey non accettarono di buon grado la mia formula segreta. Non saprei dire, a onor del vero, il perchè. Forse troppo bigotti per accettare un potere che chiaramente non veniva dal loro messia, troppo bifolchi per comprendere la magia delle carte, gli abitanti di quella terra tanto puritana quanto dimenticata da Dio mi bollarono come baro, e stavolta nessun arguto erudito(quale erudito avrei potuto trovare nel continente dei mandriani?) era lì per aprire gli occhi ai miei avversari. E così, conclusa con una scarica di piombo nel mio addome la seconda partita più importante della mia vita, affido a questo foglio il segreto della mia ormai antica fortuna.  Spero che qualcuno lo trovi, che qualcuno apprenda la lezione e impedisca che siffatto segreto si perda per sempre. Se così non dovesse accadere, vorrà dire che qualcuno di più grande e saggio di me ha deciso che l’uomo non è pronto per tali rivelazioni. Ma chiunque tu sia, se stai leggendo, ricorda queste parole: positivo e componente. Positivo. E componente.”

E questo, è il manoscritto grazie al quale oggi sono vittorioso vincitore di vari giochi di carte&affini. Avevo deciso di tenere il segreto per me, ma adesso che le cose stanno venendo allo scoperto, mi sono visto costretto a rivelare al mondo la verità.

Che Dio ci aiuti.

Carta, tu che sei giallastra e componente, color dell’ocra.

postato il 11 Set 2011 in Main thread
da Deluded Wiseman

Sto per scrivere una cosa molto nerd. E un po’ creepy. Insomma, una cosa che non mi rende molto cool, ma non fa niente(Dante, ti prego aiutami o fammi fuori). Si tratta di carta, ovviamente, un tipo di carta specifica con la quale ho un rapporto particolare. No, non è la carta igienica, o comunque non è quella ciò di cui voglio parlare. Si tratta, e lo dico con un grasso e unticcio orgoglio nerd, della carta dei fumetti vecchi, mi riferisco in particolare a quella che, negli anni ’70 aveva il privilegio di ospitare le colorate e innocentemente fighissime avventure dei supereroi Marvel, per gentile(?) concessione dell’Editore Corno, il primo editore italico a portare nello Stivale le suddette colorate vicende(non voglio sminuire i rispettabilissimi fumetti d’altro genere, dal cowboy al porno, che pure, appartenendo a quell’epoca, odorano similmente. Però non li ho mai letti molto, o comunque non li ho mai annusati con particolare zelo, quindi sticazzi). Anche la carta dei libri vecchi è bella, ha quell’odore penetrante e quel giallino cultura austera che anche il manuale dei panzarotti ha l’aria di un trattato di filologia sumera. Però a me la carta dei fumetti prende di più, ci sono più legato per vari motivi e soprattutto per uno in particolare: le parole del libro le leggi sulla pagina, ok, ma l’azione poi, a meno che tu non abbia la fantasia di un cardo, si svolge nella tua mente, la pagine col testo è solo l’imput. Nel fumetto invece no, è tutto lì sulla  carta: la descrizione, il dialogo e l’azione stessa, si stampano nella testa esattamente come sono nell’albo, e non c’è nessuna operazione di immaginazione(il che è tanto un pregio, quanto un difetto). Il libro puoi anche ascoltarlo, il supporto fisico serve solo ad avere un’esperienza di lettura più intima e vicina al testo, il fumetto se non stringi la pagina fra le mani non è nulla. E’così legato al suo supporto fisico, che per quanto mi riguarda molte delle storie vecchie, ristampate in edizioni nuove perdono metà del loro fascino: sembrano solo delle avventure fuori dal tempo, troppo semplici e variopinte per sopravvivere al fianco delle loro discendenti, più serie e mature, almeno quelle fatte bene. Però se l’edizione è originale il discorso cambia; certo, niente trasformerà “I Fantastici 4 contro l’Uomo Impossibile” in  ”Watchmen”, ma per quanto mi riguarda bastano quella colorazione zingara e imprecisa resa ancora più ignorante dall’alternanza pagine colorate-pagine bianco e nero (poi soppiantata, con profondere di annunci tamarri “Tutto a colori”) e quell’odore inimitabile a conferire a quelle vetuste vignette un senso di ingenua e immaginifica epicità, come quella di pitture e incisioni antiche che ci affascinano ancorché rozze e rudimentali, e rendere godibile qualunque baggianata anni ‘60. Ma poi l’odore, devo ripeterlo. Mi sa che questo è il punto nerd&creep: a me il profumo delle ingiallite pagine dei fumettazzi anni ’70 piace proprio, è inimitabile. Non lo so perché è diverso dal generico (e comunque esaltante) odore di pagine vecchie. Boh. Saranno i colori zingari, le manine unticce di tre generazioni di nerd che le tocchicciano e le accarezzano, sarà che sono stampate su fogli di carta igienica riciclata. Non lo so, però trasuda storia, e storie. Miste: odore delle storie dei supertizi in calzamaglia, della storia di dell’intrattenimento leggero, degli epici viaggi di quell’albo fra cantine e scaffali, e delle storie di tutti i gonzi che lo hanno posseduto, lasciandoci un segno, una macchia di caffè, un nome, una macchia di caffè che non ci pare tanto, ma una macchia marrone SICURAMENTE altro non può essere, e facendoti chiedere cosa cazzo spinga un uomo a spendere L.200 per fare i baffi a Capitan America, o per colorare il costume dell’Uomo Ragno di lillà e azzurro. Chiuderò in bellezza, raccontandovi di quando mia madre mi aveva comprato il glorioso “Fantastici 4 n.56” per natale, impacchettandolo solo dopo averlo inscatolato per non farsi sgamare subito, fallendo perché io già in macchina esaminando i regali come tutti i bravi bambini fanno avevo percepito l’odorazzo di fumetti vecchi. Lo so, è un incesto fra un aneddoto e uno spoiler, ma non avevo il cuore di narrarlo cristianamente.

No amici, non ve ne andate! È un feticismo socialmente accettato, chiedete pure a tutti gli appassionati in quelle le fiere del fumetto che non ho MAI frequentato!

C’è a chi piacciono i piedi, a chi le scarpe, a chi le carrozzerie cromate, a chi le tette. Bè, a me piacciono le tette i fumetti vecchi, carta compresa, sì.

 

 

PS:servirà un post per spiegare il titolo.

 

 

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