In un batter d’ali

postato il 10 Lug 2012 in Main thread
da Vobby

Buio.
Respiro. Spingi, buio, spingi, buio, luce, spingi, luce luce, apri le ali.
Sbatti le ali, vola, fame, vola vola, fiore, vola, fiore, cibo, mangia.
Vola, sazietà, desiderio, cerca, cerca, vola, cerca cerca.
Vespa, paura, scappa scappa scappa, vespa, paura, scappa, vespa, paura, scappa scappa, lontano, desiderio.
Cerca cerca cerca, trovata, vola vola vola, presa, desiderio desiderio, amore.
Stanchezza, vola, fame, vola vola, fiore, cibo, stanchezza, stanchezza, vespa, paura, vola, stanchezza, vespa.
Dolore, vespa, paura paura, dolore, ves…

Della morte, della fine e dell’eternità

postato il 6 Lug 2012 in Main thread
da ad.6

[La fine è un argomento troppo bello per essere ignorato e quindi non lo farò. Questo sarà un discorso probabilmente disomogeneo sulla morte, sulla mia morte e sulla fine più in generale]

Nella nostra vita la morte è il momento critico per eccellenza. L’atto della nascita è infatti un processo graduale della non-vita verso la vita, senza che in effetti si possa ben distinguere dove finisce l’una e comincia l’altra. Ma la morte no, perché un attimo prima tutto funzionava (abbastanza), il cuore batteva e l’organismo si nutriva e un attimo dopo non più. E qui è la drasticità.
Altro aspetto è il nulla. O anche il passaggio dall'”io” al “…”. Questa è una cosa che va oltre la paura dell’ignoto, della paura del buio, dell’horror vacui: sono tutti casi in cui non tutto è ignoto, non tutto è oscuro, non tutto è vuoto, visto che permane la certezza di essere comunque presenti; no, è la paura del nulla cognitivo Berkleyiano, del fatto che il mondo scompaia perché siamo scomparsi noi, del fatto che venga meno la percezione che abbiamo di noi stessi. Questa è costante negli anni e, nonostante la nostra “coscienza” nel rinnovsrsi muoia e rinasca continuamente ed impercettibilmente, non ne siamo mai sprovvisti tanto da chiamarla “io”.
E proprio di questo sono convinto (nel limite del ragionevole dubbio), ossia del fatto che questo nostro Io, questa nostra coscienza non sia altro che il “sentire di sentire”, la percezione di percepire o il senso dei sensi. Non solo siamo infatti in grado di vedere, ma possiamo anche sentire che gli occhi stanno vedendo, il che porta ad un livello di consapevolezza che altri animali non hanno. Tuttavia questo conduce all’identificazione di questo nostro senso dei sensi, del fascio di sensazioni che il singolo organismo prova, con qualcosa di indefinibile e pieno di arroganti pretese metafisiche che chiamiamo “Io”. Il linguaggio non aiuta, ma dico: Io non credo di esistere. Non credo che quello che da sempre chiamo “io” esista veramente come un’entità autonoma. Più che altro sarebbe “l’ente che scrive alla tastiera è un corpo che agisce in maniera causale e probabilistica secondo meccanismi che gli permettono di percepire il mondo e di percepire la proprie percezioni”.
Detto questo, viene sminuito il concetto di “Io” ed affossata la domanda “cosa rimarrà di me?”.
Gente mi ha chiesto: “Ma allora cosa sono io?”. E bene o male questa è stata la risposta che ho dato, il che ha se non altro il pregio (a mio parere) di eliminare quell’incertezza che porta alla formulazione di risposte metafisiche più o meno inaccettabili. “Chi pensi di essere in realtà non esiste, è un’illusione, la materializzazione di processi percettivi e cognitivi”. L’io, come l’anima, sono materializzazioni.
È chiaro, in quest’ottica, che nulla sopravvive al corpo, il che, certo, non porta alcun conforto.
Tuttavia, arrivando a me, sento particolarmente mio e particolarmente vero (fino a una disperata prova contraria) il concetto biblico di “Vanitas vanitatum et omnia vanitas”, in chiave olistica. Devo morire e scomparire nel nulla, prima o dopo non fa una reale differenza, per ME. E se deve accadere prima i “perché” e i “se” non avranno senso. Davanti alla morte spererò, come spero, di continuare a vivere più a lungo possibile, perché così è fatto l’uomo e in tal senso agiscono gli animali in generale, ma mi aspetto di affrontare la cosa ragionevolmente. Molto. In un certo senso sono curioso di vedere come affronterò la morte, senza per questo essere impaziente. C’è tempo, quale che sia.

Concludo con qualche riflessione sulla fine.
Trovo la fine una cosa confortevole ed accogliente, orripilante e terribile. I miei incubi più ricorrenti erano esattamente questo: un continuo finire. Il contrasto, proprio degli incubi, mi dava un grande senso di angoscia e di terrore. Continuo a fare quei sogni, ma adesso li trovo solamente affascinanti e sgradevoli. La questione è che la fine è un suggerimento, un cenno, ma non fa parte del nostro mondo cognitivo. Nello spazio possiamo andare sempre oltre e quando non possiamo sappiamo di potere, oltre i limiti che riusciamo ad immaginare, se ci riusciamo; nel tempo conosciamo solo un inizio (il nostro primo ricordo, casomai) e in verità nemmeno quello, ma la fine non esiste, perché non la sperimenteremo mai. Tra le domande più frequenti dei bambini, oltre al classico “perché?” c’è l’ugualmente frequente “e poi?”. Non sappiamo bene cosa sia la fine, lo intuiamo, e la paura per ciò che termina è la stessa che abbiamo verso ciò che non conosciamo.
“E poi cosa ci sarà? C’è sempre qualcosa, dopo!”.
Però, passando al lato personale della questione, sono spaventato più dalla non-fine che dalla fine. Siamo esseri finiti e mortali e l’infinito (fattuale) ci è estraneo quasi quanto il nulla. L’unico modo di vivere una vita infinita credo sarebbe quella di viverla “finita a blocchi”, cioè vivendo cent’anni come cent’anni su cento e non come parte di un’eternità. Quello sarebbe veramente spaventoso, difficilmente sopportabile e in definitiva, dopo tantissimo tempo (che è sempre niente rispetto all’eternità), insostenibile.

 

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