Autore: freeronin


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Un film blasfemo

postato il 23 Set 2012 in Cazzi e mazzi personali
da Vobby e freeronin

Vobby: «“Il Manifesto” continua a parlare del “film blasfemo” e dell’“offesa al profeta” a proposito del film Innocenza dei musulmani. Sono l’unico a pensare che non sia il linguaggio adatto per un quotidiano comunista? Se si è atei il film può essere brutto, fuori luogo, ignorante, ma che il contenuto sia blasfemo e offensivo dovremmo lasciare che siano i credenti a dirlo, senza condividere il loro punto di vista, secondo me».

Freeronin: «Io credo che un terzo possa giudicare, sentita la persona interessata, se qualcosa è offensivo nei confronti di un altro (un po’ come, ad esempio, il giudice in un processo per ingiuria o diffamazione), senza per questo condividere il suo punto di vista. Sul “blasfemo” sicuramente il non credente non può giudicare. Certo, a volte – come “eretico” – può essere usato in senso traslato, ma non è questo il caso».

V.: «Se è come dici tu, che ha senso, è ancora peggio: non mi piace granché che “Il Manifesto” si erga a giudice di un film dando ragione a chi reagisce alla libertà di espressione bruciando bandiere e assediando ambasciate. A me piacerebbe che venisse presa una posizione chiara sul fatto che, di fronte all’opera d’arte, offensiva e insultante che sia, la reazione violenta non può essere condivisa né giustificata. Che insopportabile tono supponente che ho».

F.: «”Il Manifesto” si erge a giudice di tante cose…diciamo che spesso usa un linguaggio dogmatico. Però – fermo restando che non può ergersi a giudice – è vero che un giornale può criticare un film perché è offensivo, anche quello è libertà di espressione. Il punto è che non hanno proprio considerato il film come opera d’arte, ma solo come provocazione politica».

V.: «Ma il problema è che loro non criticano il film! Non ci sono articoli sul film, ci sono articoli sulle proteste contro di esso, nei quali si usa lo stesso linguaggio usato dai manifestanti. E la definizione di blasfemia e offensività è data per scontata. Se il film fosse stato contro il papa, le crociate e i preti pedofili sarebbe stato una grande opera, così non si fa».

F.: «Ah, sicuramente. Se condividi i miei distinguo si può dire che siamo proprio d’accordo XD».

Et voilà!

postato il 4 Giu 2012 in Main thread
da freeronin

Ed eccovi servito, in ritardo e con un’introduzione di pessima fattura, l’argomento di questo mese

No, non il karate, bensì i maestri.
A volte ci imbattiamo in persone che, volontariamente o in maniera assolutamente casuale, ci danno insegnamenti che non dimentichiamo più, su piccole o grandi verità (ad esempio, il noto “non attraversare davanti ai pullman ché vengono fuori i motorini da dietro e non li vedi”, di mia nonna).
A volte non si tratta nemmeno di persone in cui ci imbattiamo, ma di persone che in un modo o nell’altro riusciamo a osservare e prendiamo a modello. Certo, è un’abitudine sempre meno diffusa, ma  credo non definitivamente tramontata: intimamente ispirarsi, almeno in qualche piccola cosa, a personalità più o meno folgoranti, nutrendo nei loro confronti quel particolarissimo tipo di affetto misto a timore reverenziale.
A volte nemmeno si tratta strettamente di persone, ma di personaggi, figure inventate. Sarebbe riduttivo dire che il maestro in questo caso sia creatore del personaggio, perché spesso, a partire da una frase che l’autore gli fa dire, o da un atteggiamento che gli fa tenere, il personaggio prende vita propria nella nostra immaginazione, e ha qualcosa da insegnarci.
Beh, se poi volete parlare del maestro di Karate Kid (o di Yoda, so che volete farlo) fate pure, sarà sicuramente costruttivo.

Tutta quella città…

postato il 19 Mag 2012 in Main thread
da freeronin

La leggenda del pianista sull’oceano

Tutta quella città… non si riusciva a vederne la fine… La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? Era tutto molto bello su quella scaletta… e io ero grande, con quel bel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi che sarei sceso, non c’era problema. Non è quello che vidi che mi fermò, Max. È quello che non vidi. Puoi capirlo? Quello che non vidi… In tutta quella sterminata città c’era tutto tranne la fine. C’era tutto. Ma non c’era una fine. Quello che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo. Tu pensa a un pianoforte: i tasti iniziano, i tasti finiscono. Tu lo sai che sono ottantotto, e su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti loro. Tu sei infinito, e dentro quegli ottantotto tasti la musica che puoi fare è infinita. Questo a me piace. In questo posso vivere. Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai – e questa è la verità, che non finiscono mai – … Quella tastiera è infinita. Ma se quella tastiera è infinita allora su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Sei seduto sul seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio. Cristo, ma le vedevi le strade? Anche soltanto le strade, ce n’erano a migliaia! Ma dimmelo, come fate voialtri laggiù a sceglierne una? A scegliere una donna. Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire. Tutto quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce e quanto ce n’è. Ma non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quella enormità, solo a pensarla, a viverla? Io ci sono nato su questa nave. E, vedi, anche qui il mondo passava, ma non più di duemila persone per volta. E di desideri ce n’erano, ma non più di quelli che ci potevano stare su una nave, tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità su una tastiera che non era infinita. Io ho imparato a vivere in questo modo. La terra… è una nave troppo grande per me. È una donna troppo bella. È un viaggio troppo lungo. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare. Non scenderò dalla nave. Al massimo, posso scendere dalla mia vita.

I ruderi di una fabbrica

postato il 3 Mag 2012 in Main thread
da freeronin

Affacciatosi per la prima volta da Posillipo, mio cugino conclude: «eh, bel panorama che tenete: i ruderi della fabbrica…».
Difficile dargli completamente torto, però è innegabile che i resti dell’Italsider di Bagnoli siano ormai – forse irreversibilmente – parte del luogo: per me, che sono nata appena venti anni fa, sono sempre stati lì, già ruderi. Personalmente, però, non riesco a pensare che siano solo qualcosa di brutto, come di solito mi capita di pensare di certi edifici moderni che sbucano dietro scorci di paesini antichi o palazzoni enormi e sgraziati costruiti sulle coste.
Quello che vedo, una larghissima estensione di terra nuda con poche costruzioni, massicce ed elementari, ha, per me, un che di arcaico, mi sembra antico quanto la natura intorno, naturale come mi sembrerebbero naturali le pietre di Stonehenge o i nuraghe in Sardegna.
Trovo in un certo senso giusto che sia lì. Non lo trovo ameno, però mi ipnotizza il modo in cui quel mare e quegli scogli mozzafiato messi vicino a una fabbrica in disuso siano in profonda sintonia con l’anima piena di contraddizioni del territorio napoletano.
È strano: un paesaggio costruito dall’uomo appare più immobile della natura intorno, sempre maestoso e sempre uguale a se stesso. E la cosa più amaramente strana è che il mare appare tanto invitante, tanto gioioso nelle giornate di sole, tanto puro quando il cielo grigio ne esalta il blu intenso, ma proprio lì è ancora malato, contaminato.
L’immobilità stessa di quel luogo è in realtà il risultato di un movimento incessante, un intreccio di progetti di riqualificazione, di chiacchiere, di camorra, di sano attivismo politico e civile, un fare e disfare continuo, un movimento che ancora non conduce da nessuna parte: “facite ammuina”.

L’esperienza della forza

postato il 28 Gen 2012 in Main thread
da freeronin

Chissà cosa vuol dire sollevare un bilanciere di 472,5 kg; penso non si possa dire che in proporzione l’abbiamo provato, perché in casi del genere la proporzione salta: non si tratta solo di avere un’enorme potenza, ma anche di saperla utilizzare proprio tutta in quel momento e in quel gesto. È un’esperienza che solo una persona ha vissuto, e che, anche per lei, è per lo più irripetibile. Immagino si tratti di momenti in cui la concentrazione e la fatica lasciano un segno indelebile, pur collocandosi in un universo assolutamente distante da quello della vita di tutti i giorni: la pedana, le divise, la solennità delle procedure di gara, il pubblico, i giudici…
Usare la forza ci cambia, quando diamo fondo alle nostre capacità fisiche sembra di capire qualcosa in più di noi stessi: c’è stato un tempo in cui vivere era camminare per lunghe ore, correre, superare gli ostacoli, tirare la lancia, portare a casa la preda… ma adesso non sappiamo più che cosa significhi. Quando si comincia a vedere il limite delle proprie energie si ritrova un frammento di questa sensazione, una minima parte di quello che doveva essere la lotta per la sopravvivenza: il pugile che viene messo a tappeto non rischia davvero la vita con quell’incontro, ma intanto ha imparato a non dare per scontata l’integrità del proprio naso.
È incredibile quanto tutte queste sensazioni ci siano lontane. Adesso per noi il nostro proprio corpo è un mistero, non sappiamo precisamente fino a che punto ci possiamo fare affidamento, non abbiamo quasi mai provato a vederne i limiti.
I campioni, quelli che sanno guardare in faccia la fatica e vincerla tutti i giorni, probabilmente sanno molte cose che non sappiamo, e le nascondono dietro più o meno timidi sorrisi alla stampa. Ma anche, senza tante pretese, le vecchiette calabresi che fino a cinquant’anni fa camminavano 40 km per portare il pesce al paese. Certo, tutti abbiamo visto Phelps fare il record del mondo, ma non sappiamo, e probabilmente non sapremo mai, cosa lui abbia visto mentre il fiato gli terminava e doveva ricacciare comunque la testa in acqua. Nonostante avesse potuto disporre di un allenatore competente e di un intero staff di scienziati e di tecnici, era l’unico ad essersi mai davvero trovato in quella situazione. Sarà stato molto solo, non gli sarà rimasto che dialogare con le proprie fibre muscolari, trovarle stanche e convincerle a continuare a spingere, chissà come. Le avrà sentite dolere e avrà sopportato il dolore, avrà accettato il dolore e l’avrà affrontato continuando a esprimere forza, come se il dolore fosse ormai parte di lui.
Ed era forza gratuita, perché nessun bisogno vitale lo spingeva, pura e gratuita espressione di forza, che ci dimostra che parte di noi stessi ha ancora bisogno di quell’esperienza.

Un anno o qualche ora di attesa

postato il 20 Nov 2011 in Main thread
da freeronin

Un anno o qualche ora di attesa è lo stesso, quando si è perduta l’illusione di essere eterno.

Questa è una frase che Sartre fa dire a un condannato a morte; mi colpì per come rende la disperazione, il sentimento di un uomo a cui non è più dato farsi illusioni e fare progetti dando per scontato che ci sia un domani. Non tanto l’estremo sconforto, quanto, appunto, l’assenza di ogni speranza di salvezza.

Eppure, nonostante tutto, nonostante il fatto che la vita sembri insensata, essendo comunque destinata a finire, il condannato non può fare a meno di temere la morte, vuole vivere.

Ma forse le due cose non si contraddicono: nulla ci impedisce di amare una vita che finirà domani.  È anche per tutto quello che essa ha di insensato che vogliamo vivere, per le piccole gioie dell’ora e del qui, per il fatto che un momento può essere bello anche se non ha un futuro in cui proiettarsi, anche se è un’esperienza che scopriamo per la prima volta, che non rivivremo mai e che non cambierà le nostre vite.

Forse non è indifferente un anno o qualche ora di attesa, soprattutto quando si è perduta l’illusione di essere eterno.

Storie di carta

postato il 27 Set 2011 in Main thread
da freeronin

Di fatto la carta è in via di estinzione. Già sono completamente scomparse, e da tempo, le lettere, anche le cartoline sono sulla buona strada, e forse prima o poi verrà il turno dei libri e dei quotidiani.
Ma la carta ne avrà di storie da raccontare.
La mia vita, ad esempio, continuamente e inesorabilmente si riempie di carta. A cominciare dal fatto che l’anno scolastico non inizia se la mia casa non è stata sommersa da cartoni delle Copie-Saggio, che inviano a ogni professore, di nuove edizioni (per lo più identiche alle precedenti) di manuali di letteratura latina e greca.
Da quando ho iniziato a studiare, poi, le cose sono decisamente degenerate.

In particolare, appena entrata al liceo classico, ho incontrato il mio primo grande cumulo di carta: il Dizionario Greco-Italiano di Lorenzo Rocci.
Certo, potremmo chiederci a lungo se le traduzioni di Lorenzo Rocci siano più incomprensibili quando sono in latino o in toscano arcaico, tuttavia in questo caso penso sia più esplicativo presentare il mostro dizionario nel suo aspetto cartaceo.
Il Rocci è un volumone enorme e pesantissimo con la rilegatura blu in cui sono stampate molte parole in un carattere straniero di piccolissime dimensioni. Talvolta, come se non bastasse, lo studente deve anche portarselo dietro fino a scuola e ritorno, che ci siano trenta gradi o la pioggia. Altre volte, invece, lo studente è costretto a distinguere spiriti e accenti (fondamentali!) posti sopra i caratteri della dimensione di cui dicevo.
E poi ci sono le mille possibili combinazioni con cui si può disporre il libro con la versione, il quaderno e il vocabolario su un banco sistematicamente troppo piccolo. Ho anche conosciuto una persona che sedeva in una certa maniera per sovrastare il vocabolario e sentirsi più tranquilla, avendo l’impressione di dominarlo.

Neanche il tempo di riporre il buon Rocci, che fanno irruzione altri due importanti cumuli di carta: il Codice Civile e il Trabucchi.
L’incontro degli studenti del primo anno con il Codice Civile si svolge sempre più o meno nella stessa maniera. Il professore vuole leggere l’articolo del Codice e, appunto, ne dice il numero. Seguono consultazioni tra ogni studente e gli studenti che siedono vicino (“ha detto 1351?”, “ma no! Ha detto 1251”, “eh?!”…). Appurato il numero dell’articolo (ovviamente né 1351 né 1251, bensì, generalmente, 2043) si inizia a cercarlo. A questo punto, però, il professore ha già finito di leggere la norma e sta continuando a spiegare.
Ma la cosa peggiore è quando poi alzi la testa e vedi il Codice che lui ha appena chiuso: un volume giallastro completamente logoro e consunto, più e più volte sfogliato, annotato in tutti i modi, solitamente inzeppato dei fogliettini – e pacchi di fogliettini – con cui i professori sono soliti aggiornare i Codici (perché le leggi cambiano, le copie del Codice Civile dei professori no).
A quel punto, con un po’ di timore reverenziale e di apprensione per la piega che potrebbero prendere gli studi futuri, ti chiedi “ma pure il mio sarà così?” e ti rispondi da solo quando vedi che anche la copia del Codice del giovane dottorando non è messa molto meglio…
Un po’ come la profonda differenza nel modo di vedere la vita che c’è tra il ragazzino quattordicenne che ha appena sostenuto una spesa di tipo 100 €, e che quindi tiene il vocabolario nuovo nuovo con cura e dentro la custodia (integra, ma ancora per poco), e il diciottenne che ha disintegrato la custodia, logorato il vocabolario e tappezzato le pagine esterne con declinazioni e regole di grammatica di ogni tipo (che aveva iniziato a scrivere prima di scoprire di non saperle comunque usare).
E poi c’è il Trabucchi… beh, quello è cattivissimo.
“Ma quanto cattivo potrà mai essere?”, direte voi. Beh, io qui dico solo che è un grosso volume con una copertina cartonata che cambia colore a ogni nuova edizione (se volete saperlo, a me si è presentato con un triste blu, sì, come il Rocci), con le pagine sottilissime e un infinito corredo di note. Per una trattazione più approfondita della tematica rimando a Deluded Wiseman, L’Ignobile Ignoto, Blognudeln, 15/4/2011.

And the winner is…

postato il 1 Lug 2011 in Main thread
da freeronin

Sono giunta alla conclusione che quella che stiamo vivendo non è più competizione se, alla vigilia del momento decisivo, cominciamo a sperare che l’avversario non sarà al massimo della forma e non che, invece, sarà al meglio delle sue possibilità per darci l’occasione di batterlo comunque.

Per festeggiare il raggiungimento di questa, pur incompleta, certezza (sto parlando del confine della competizione o della competizione “buona”? Le due cose coincidono?), ho deciso che voglio riprendere a farmi problemi leggendo un grosso quantitativo di spunti – idee, esperienze, ricordi, riflessioni, o altro – nei vostri post, i quali avranno in qualche modo a che fare con la competizione.

A cosa mi riferisco?
Ad animal spirits, duelli medievali, eristica, gare sportive, videogiochi, al compagno di classe che ad ogni singola verifica viene sempre a chiederti il voto… a tutto quello vi sentite di chiamare “competizione”.
Non sto certo qui a voler limitare la forza espansiva di un argomento che, esattamente al contrario degli elementi dell’elenco di Azazello, non fa che pormi una grossa quantità di interrogativi teorici e pratici a cui non saprò mai rispondere.
Qualche esempio. Che rapporto c’è tra competizione, rivalità e lotta? Che effetto ha la competizione  tra amici sul rapporto di amicizia? Sarebbe giusto ricoprire di fischi de Coubertin? È giusto gettare con disprezzo la medaglia di bronzo ai piedi del podio olimpico per protesta contro la giuria? Che rispetto merita il perdente? Il secondo ha “vinto” o ha “perso”? Quanto conta la non uguaglianza dei punti di partenza?
Per di più ho notato che, da quando siamo piccoli, siamo bombardati da indicazioni ambigue sul competere: vediamo benissimo che i genitori sono fieri e contenti quando siamo i primi della classe o vinciamo una gara, eppure poi ci sentiamo dire che non è una cosa buona mettersi a competere con i compagni, e tutta la storia cambia ancora quando dobbiamo vincere un concorso o prevalere sugli altri nell’accaparramento dei posti di lavoro….

Aggiungo un’ultima cosa: confidando nel valore della “buona” competizione, annuncio che alla fine del mese gli autori voteranno, commentando questo post, il post che ritengono migliore. Il premio sarà, naturalmente, la soddisfazione per una strabiliante vittoria (perché ovviamente la competizione sarà di altissimo livello).
Se non vi basta potete sempre non partecipare alla gara e scrivere un post sul valore del premio nella competizione. E, se pensate che le competizioni abbiano un effetto deleterio sulle amicizie e/o sulle collaborazioni editoriali, è concessa anche l’obiezione di coscienza.

Il “no”, il “vaffanculo” e gli “antifa”

postato il 18 Giu 2011 in Main thread
da freeronin

Abbiamo riempito le piazze e, soprattutto, la rete, di “no” e di “vaffanculo”. Ci siamo dichiarati “antifa” sui muri della facoltà di lettere, abbiamo coniato questa stessa terribile parola.

Ma con questo abbiamo davvero detto “no”? E poi, dopo quel “no”, cosa resta? Esiste un Popolo Viola senza Berlusconi, un Grillo senza politica, un centro sociale senza un nemico?

Il Popolo Viola è un coacervo di diversissime posizioni (e non-posizioni) che si sono trovate per caso sullo stesso terreno pur avendo ben poco in comune; gli “antifa” sono disseminati in una serie di gruppi che non fanno che criticarsi l’un l’altro.

Entrambi adottano la strategia di un lottatore che voglia atterrare l’avversario con una proiezione, sfruttando la sua stessa forza: il risultato sarà migliore quanto più forte e più rozzo si dimostrerà l’avversario. Se il Popolo Viola dovesse vincere sarebbe perché Berlusconi si sarebbe abbattuto da solo, agendo troppo incautamente ed eccedendo nelle sue politiche egoistiche.

Non voglio contestare l’efficacia pratica di questa strategia, non, almeno, nel suo momento distruttivo: il problema è che il nostro lottatore, pur dopo aver atterrato il colosso, sarebbe incapace di far male a un bambino. Fino ad ora, infatti, non ha fatto altro che usare la forza di altri, e il suo poderoso “no” si è risolto in uno scimmiottamento del nemico.

Se per battere Berlusconi abbiamo avuto bisogno di trascinare folle a tutti i costi e poi di contarci, di assumere la sua stessa ossessione per la visibilità, di fingerci martiri, di diventare come lui per avere un successo pari e superiore al suo, dalle ceneri di Berlusconi non potrà nascere qualcosa di molto diverso da Berlusconi. Anche se faremo qualche riforma di diverso contenuto.

Più in generale, penso che il vero “no” risieda prima di tutto nella forma e nei termini con cui ci esprimiamo nel negare qualcosa. Arrivo al risultato, forse paradossale, di considerare come più sostanziale la forma che il contenuto, ma più che altro penso che il contenuto non possa mai essere isolato dalla forma.

Penso che un’opposizione vera non sia quella che nasce come un “no” per poi affermare qualcosa, bensì quella che nasce da subito, e cresce, come costruzione di una pratica diversa, traducendosi immediatamente in un diverso agire politico. Fermo restando che a un certo punto verrà il momento di dire “no”, rompere barriere, sabotare, manifestare e tutto il resto; ma a questo punto si potrà fare tutto questo, e poi molto altro, contando sulle proprie forze.

Indifferenti

postato il 16 Mag 2011 in Main thread
da freeronin

Il titolo non è un plagio, ma una citazione: questo testo è nato quando pensammo, con altri di un gruppo di lettura di cui non vi sto a parlare, di comporre un dialogo sull’indifferenza, prendendo spunto dal famoso testo di Gramsci. Purtroppo il dialogo non ha mai visto la luce, ma, intanto, ne condivido con voi la prima “battuta”, composta, appunto, dalla sottoscritta.

Noterete che è un po’ datato, risale a circa cinque anni fa… ma tant’è: in fondo da questo fatto derivano anche buona parte dei motivi per cui ho pensato valesse la pena pubblicarlo e farlo leggere…

INDIFFERENTI

Nella Divina Commedia gli ignavi non sono degni nemmeno dell’inferno.

Probabilmente è vero: io posso rispettare le idee degli altri, per quanto diverse dalle mie… ma le non-idee non posso rispettarle, e in effetti metafisicamente non posso nemmeno odiarle in quanto inesistenti.

Concretamente credo di non poterle odiare perché non hanno identità, sono una forza distruttrice, la più potente forza distruttrice, ma senza volto e senza finalità. Posso solo individuarle nel mezzo di una massa indeterminata, e magari odiarle per quello che non sono. Come se questa confusione non bastasse, mi trovo in una situazione in cui quello che devo fare perché i miei ideali si realizzino è proprio estinguere questa forza esclusivamente distruttrice, attraverso la generazione di una forza motrice ancora più potente; e non c’è alcun motivo per cui non vi possa riuscire.

L’indifferenza si nasconde: non è il Cattivo delle favole, non è la Bastiglia, che con molta fatica può essere espugnata, non è lo schiavista, non è il dittatore che ha un nome e un volto. Un volto fin troppo noto.

Quando si fa notare la direzione che ha preso il mondo, l’uomo-massa è lagnoso e la massa è indifferente: l’uomo-massa davanti ai suoi simili fa finta di niente per essere accettato. Oppure recita sfacciatamente la parte dell’inconsolabile e impotente vittima del sistema, senza accorgersi del fatto che il sistema è lui. E il resto della massa lo incoraggia, per esorcizzare la paura latente di una vittima vera che può pensare sul serio di cambiare quel sistema tanto comodo.

L’unico atteggiamento che l’uomo–massa non assumerà mai è quello di reagire. E infatti la sua indifferenza è la scala a pioli che il dittatore calpesta, la massa compatta e cieca il suo sostegno.

Gli dirai che la corruzione e l’imbarbarimento dei costumi, la riduzione a merce di tutto ciò che abbiamo intorno, lo riguarda, che non parli di pianeti lontani…

Magari piangerai, griderai le tue idee e strepiterai, potrai pure insultarlo, potrai cercare in ogni modo di attirare la sua attenzione, potrai morire dilaniato davanti ai suoi occhi… distorcerà la mascella in un ghigno e tra i denti sibilerà: “questo è scemo”. E tutti i suoi amici rideranno con lui, rendendolo soddisfatto.

È tutto quello che ha da dire, il “Non Sapere” è la sua unica arte: egli è capace di tuffarsi in un mare di idee, notizie o opere d’arte senza uscirne minimamente bagnato.

Essendo l’uomo-massa materia inerte, sorge spontaneo ogni paragone con le leggi della fisica: in natura ogni elemento, per esempio gli elettroni in un atomo o un oggetto attratto dalla gravità, se lasciato libero tende ad occupare il posto che richiede minore energia da parte sua.

Ma l’uomo dovrebbe cercare lo stato più eccitato, perchè ogni suo momento potrebbe essere l’ultimo: l’uomo vive una volta sola come uomo, si crea e si distrugge, e ha un’eternità a disposizione per esistere inerte, come cibo per batteri decompositori.

L’uomo è vivo, e mosso da fini, prima che da cause.

Ho fiducia dell’uomo, ma deve prima ridiventare uomo.

 

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