Storie di carta

postato il 27 Set 2011 in Main thread
da freeronin

Di fatto la carta è in via di estinzione. Già sono completamente scomparse, e da tempo, le lettere, anche le cartoline sono sulla buona strada, e forse prima o poi verrà il turno dei libri e dei quotidiani.
Ma la carta ne avrà di storie da raccontare.
La mia vita, ad esempio, continuamente e inesorabilmente si riempie di carta. A cominciare dal fatto che l’anno scolastico non inizia se la mia casa non è stata sommersa da cartoni delle Copie-Saggio, che inviano a ogni professore, di nuove edizioni (per lo più identiche alle precedenti) di manuali di letteratura latina e greca.
Da quando ho iniziato a studiare, poi, le cose sono decisamente degenerate.

In particolare, appena entrata al liceo classico, ho incontrato il mio primo grande cumulo di carta: il Dizionario Greco-Italiano di Lorenzo Rocci.
Certo, potremmo chiederci a lungo se le traduzioni di Lorenzo Rocci siano più incomprensibili quando sono in latino o in toscano arcaico, tuttavia in questo caso penso sia più esplicativo presentare il mostro dizionario nel suo aspetto cartaceo.
Il Rocci è un volumone enorme e pesantissimo con la rilegatura blu in cui sono stampate molte parole in un carattere straniero di piccolissime dimensioni. Talvolta, come se non bastasse, lo studente deve anche portarselo dietro fino a scuola e ritorno, che ci siano trenta gradi o la pioggia. Altre volte, invece, lo studente è costretto a distinguere spiriti e accenti (fondamentali!) posti sopra i caratteri della dimensione di cui dicevo.
E poi ci sono le mille possibili combinazioni con cui si può disporre il libro con la versione, il quaderno e il vocabolario su un banco sistematicamente troppo piccolo. Ho anche conosciuto una persona che sedeva in una certa maniera per sovrastare il vocabolario e sentirsi più tranquilla, avendo l’impressione di dominarlo.

Neanche il tempo di riporre il buon Rocci, che fanno irruzione altri due importanti cumuli di carta: il Codice Civile e il Trabucchi.
L’incontro degli studenti del primo anno con il Codice Civile si svolge sempre più o meno nella stessa maniera. Il professore vuole leggere l’articolo del Codice e, appunto, ne dice il numero. Seguono consultazioni tra ogni studente e gli studenti che siedono vicino (“ha detto 1351?”, “ma no! Ha detto 1251”, “eh?!”…). Appurato il numero dell’articolo (ovviamente né 1351 né 1251, bensì, generalmente, 2043) si inizia a cercarlo. A questo punto, però, il professore ha già finito di leggere la norma e sta continuando a spiegare.
Ma la cosa peggiore è quando poi alzi la testa e vedi il Codice che lui ha appena chiuso: un volume giallastro completamente logoro e consunto, più e più volte sfogliato, annotato in tutti i modi, solitamente inzeppato dei fogliettini – e pacchi di fogliettini – con cui i professori sono soliti aggiornare i Codici (perché le leggi cambiano, le copie del Codice Civile dei professori no).
A quel punto, con un po’ di timore reverenziale e di apprensione per la piega che potrebbero prendere gli studi futuri, ti chiedi “ma pure il mio sarà così?” e ti rispondi da solo quando vedi che anche la copia del Codice del giovane dottorando non è messa molto meglio…
Un po’ come la profonda differenza nel modo di vedere la vita che c’è tra il ragazzino quattordicenne che ha appena sostenuto una spesa di tipo 100 €, e che quindi tiene il vocabolario nuovo nuovo con cura e dentro la custodia (integra, ma ancora per poco), e il diciottenne che ha disintegrato la custodia, logorato il vocabolario e tappezzato le pagine esterne con declinazioni e regole di grammatica di ogni tipo (che aveva iniziato a scrivere prima di scoprire di non saperle comunque usare).
E poi c’è il Trabucchi… beh, quello è cattivissimo.
“Ma quanto cattivo potrà mai essere?”, direte voi. Beh, io qui dico solo che è un grosso volume con una copertina cartonata che cambia colore a ogni nuova edizione (se volete saperlo, a me si è presentato con un triste blu, sì, come il Rocci), con le pagine sottilissime e un infinito corredo di note. Per una trattazione più approfondita della tematica rimando a Deluded Wiseman, L’Ignobile Ignoto, Blognudeln, 15/4/2011.

Lettera

postato il 26 Set 2011 in Cazzi e mazzi personali
da Azazello

[Questo post è stato scritto in pullman in una maniera perversa per cui non vedevo ciò che scrivevo, quindi perdonerete eventuali errori attribuibili alla cosa. Era anche un momento un po’… non saprei dirlo, ma comunque non ho avuto il coraggio di rileggerlo per controllare che non facesse schifo, però so che è importante per me e quindi lo posto ugualmente!]

Quelli che mi conoscono meglio tra i nostri due o tre lettori (ciao ma’, ciao pa’) probabilmente sanno che ruolo ha rivestito un uomo di nome Francesco Guccini nella mia vita. La cosa interessante, o forse triste, del mio rapporto con lui è che ho iniziato ad apprezzarlo molto prima di avere delle buone ragioni per farlo, più perché la mia mente di bambino era ignara dell’immenso panorama musicale in cui avrei potuto pescare le mie passioni infantili che non per effettivi meriti della sua musica, forse. Tutto è cominciato con un CD che si chiamava “L’Italia del Rock”, forse parte di una serie uscita in edicola, una compilation di brani che avevano (o non avevano poi tanto) fatto la storia della musica italiana, grazie al quale mi sono innamorato delle prime due canzoni di Guccini che abbia ascoltato: “La Locomotiva” e “Un altro giorno è andato”. Certo, sono stato colpito anche da altre canzoni di altri autori, come “Pablo”, “Stalingrado”, “Ho visto un re”, “Vengo anch’io!”, “El Pueblo Unido”, “Tammurriata Nera”, “Contessa”, ma quelle due erano tutto ciò che mi serviva per rendere sopportabile, anzi piacevole, le 17 ore di auto che separavano la mia casa di Heidelberg da quella di mia nonna a Napoli, un altro classico della mia infanzia.

Per alcuni (pochi) anni la situazione è rimasta quella: “L’Italia del Rock” era la mia principale se non unica fonte di musica e quelle due canzoni bastavano a soddisfare qualsiasi esigenza potessi avere in merito. Poi mia madre ha compiuto 40 anni ed ha ricevuto in regalo due dischi di Guccini: “Guccini Live Collection”, in due CD, e “D’amore, di morte e di altre sciocchezze” (c’è chi dice che “Radici” sia il più bel disco di Guccini, lui compreso. Queste persone non hanno capito niente e, chiaramente, non hanno mai ascoltato “D’amore, di morte, e di altre sciocchezze”. Lui compreso). Con queste due nuove fonti la mia esperienza in materia si è più che decuplicata, facendomi scoprire nuovi brani che avrebbero occupato i più bei minuti musicali della mia tarda infanzia (e della mia vita). Anche in quei momenti non capivo cosa stavo ascoltando, anche se se in certi casi potevo avvertire l’atmosfera che la canzone voleva dare, il suo senso: la placida dolcezza di “Vorrei”, l’incedere del tempo di “Lettera”, l’amarezza celata nel riso del “Matto”. Ho cominciato a crescere e a capire qualcosa di più di ogni canzone, sempre durante i lunghi viaggi in macchina coi miei genitori, poi ho potuto apprezzarne di nuove quando mia madre ha comprato “Stagioni”, “Parnassius Guccinii”, “Ritratti”. Ora, a tanti anni di distanza, amo ancora Guccini come un padre, al punto che ci sono sue canzoni che ascolto da una vita e che non conosco, non capisco e non mi sforzo di capire, perché sono lì da sempre, parte della mia famiglia, finché non mi accorgo di non sapere nemmeno di cosa parlano e provvedo.

Ma che gioia è stata scoprire, a partire da quegli anni, che l’uomo che tanto amavo per un affetto irrazionale, per imprinting, si trovava a buon diritto nella classifica dei miei musicisti preferiti!

Da capo, un’altra volta, mi sono innamorato della sua lirica così variabile nello stile, ma sempre unita nella chiarezza dei periodi, da una rustica sincerità narrativa. Ancora una volta l’ho sentito vicino, questa volta non come un padre con le sue favole, ma come un amico che mi raccontava di sé, dei temi che sentiva più vicini, dei suoi amori, delle sue delusioni, di come l’avanzare dell’età gli portava via forza, amici, gioie, amori, ma di come riusciva a superare queste cose, di come si può -e si deve- invecchiare serenamente, accettando il passare del tempo come necessario e naturale. Di come la vita meritasse di essere vissuta per le cose davvero importanti: l’amore, il sogno, la fantasia, la compagnia. Con lui ho reinterpretato eventi, riletto grandi romanzi romantici e non, da lui ho imparato, o forse in lui ho rivisto, un modo di vivere l’amore più quotidiano, meno irrazionalmente passionale, ma non per questo meno romantico. Con lui ho parlato di politica, ho rivissuto la vita dei grandi eroi della rivoluzione e ne ho scoperto la parte umana, ne ho vissuto il sogno e di esso mi sono emozionato, mi sono lasciato infervorare e sono tornato coi piedi per terra, sempre con lui. Nelle sue canzoni ho visto vasti paesaggi e grandi storie, ma anche l’intimo piacere di un momento a letto con la propria compagna, di una serrata al bar con gli amici. Ho provato la cosa più vicina a quello che può significare essere padre.

Dalla verità e l’incorruttibilità di Guccini ho imparato che si può dire no ai compromessi inaccettabili, ho scoperto che l’amore può non essere solo un dolore oscillante tra il petto e lo stomaco, ma un gioco, un tenero scherzo, per il solo giovamento degli amanti. Ho imparato ad aspettare con ansia l’incontro con una vecchia amica.

 

Ma forse la cosa più importante che ho capito ascoltando Guccini è che quasi tutto alla fine si risolve, in una maniera o nell’altra, e che vale sempre la pena di restare per vedere come va a finire.

Buongiorno!

postato il 25 Set 2011 in Il rubricone musicone rotolone
da cupnudeln

Questa è la sezione dedicata agli sproloqui musicali di Nix e, si spera, di Deluded Wiseman. Dove andremo a finire?

Infruttuosi scambi di carta

postato il 20 Set 2011 in Main thread
da Cerbs

La carta che tutti noi usiamo più frequentemente è sicuramente (no, basta, le battute sulla carta igienica hanno smesso di fare ridere! Zitti!) il danaro. Con esso mi è capitato di pagare le cose più disparate: occhiali con naso e baffi finti, strani futti messicani rossi con degli aculei, un cappellino con l’elica, un chilo di ghiande da Gay Odin, una puttana, e via così: l’elenco comprende anche libri, cioè altra carta.
Vi parlo oggi delle 5 volte che più ho rimpianto di aver effettuato un siffatto scambio cartaceo.

Partiamo dal basso:

NUMERO 5: HARRY POTTER E I DONI DELLA MORTE


So già che fra voi si annidano alcuni fan, e che storceranno il naso davanti a tanta novità: ma invece io lo dico, questo è proprio un libro di merda. Quando conclusi la lettura del sesto episodio della saga, ero pieno di aspettative: “Accipicchia, che tenZione! Quanta suspance! Che accadrà? Piton è dunque un gaglioffo di infima levatura?” Ed invece mi ritrovo un libro dove -SPOILER ALERT!- nel primo capitolo muore la civetta (che bisogno c’era?!? Perchè?!), successivamente crepa una media di 2 personaggi/capitolo, ed alla fine c’è un super massacro dove tira le cuoia persino uno dei gemelli Weasley, Harry Potter si improvvisa Gesù e torna dal mondo dei morti mentre si apprende che Silente aveva chiesto l’eutanasia. Cribbio che bruttume! Alla fine Harry non ha manco la decenza di chiamare il figlio Sirius. Però, almeno, dopo 7 anni qualcuno si cucca Hermione.

NUMERO 4: WIZARDS OF MICKEY II, L’ETA’ OSCURA


Che copertina fica,eh? Non è errato dire che lo comprai quasi solo per questo motivo. E BENE AVREI FATTO AD ASTIPARMI I SOLDI! La prima serie di questa tanto pubblicizzata (dalla Disney,eh) saga era stata, come gran parte delle storie che il Topolino sta purtroppo sfornando negli ultimi anni, una delusione. Tuttavia, ecco la novità! Ecco finalmente l’elemento che conferisce sapore alla vicenda, rendendola accattivante anche per un pubblico maturo (?) come me! TOPOLINO DIVENTA CATTIVO. Guardate quanta fighitudine, mentre siede su quel trono con quell’ascia minacciosa! E poi il mantello nero, lo sguardo! Questo sì che poteva essere un grande spunto, questo sì che poteva rendere il tutto interessante!
Topolino tornava buono al terzo numero.
Cielo, quanto dolore vedere una così buona idea sprofondare nella tristezza e nello squallore della banalità dopo tre soli numeri.

NUMERO 3: QUALCUNO CON CUI CORRERE


“Un libro eccezionale!”
“Una storia bellissima sull’amore fraterno!”
“Che autore!”
“Io l’ho divorato!”
Queste sono solo alcune delle recensioni che mi avevano illuso che questo fosse un buon libro. Vi dico solo qualcosina.
1) La trama: un ragazzo di Gerusalemme deve salvare la sorella, mi pare, dal racket dei suonatori ambulanti.
2) Il modo in cui è scritto: le scene si susseguono senza alcun senso, o forse è impaginato male, non so, comunque fattostà che ogni tanto controllavo se per caso non ci mancasse qualche pagina.
3) Le scene nonsense: ad un certo punto lui va col suo amato cane nel deserto e trova una villa privata (???) con piscina. Cosa più saggia da fare, si getta in acqua, sicchè arrivano dei tizi e lo picchiano. Si risveglia altrove, senza cane (mi pare di ricordare). La domande è: “COSA? Ma perchè?”. Boh.

NUMERO 2: QUANDO AI VENEZIANI CREBBE LA CODA


Questo piccolo (per fortuna) capolavoro ce lo diedero da leggere alle medie. Mi hanno costretto a leggerlo, ma va comunque nella classifica perchè ho dovuto spendere soldi per comprarlo. Credo che la descrizione sul retro valga più di qualsiasi mio commento: “…un romanzo fiabesco pieno di invenzioni e di sorprese, i cui protagonisti sono due bambini di diversa religione (uno ebreo e l’altro cristiano), i loro eccentrici angeli custodi e una Befana un po’ brilla, che si lascia scappare un incantesimo destinato a mutare la vita della città. Per colpa di quell’incauta magia, infatti, a tutti i veneziani crescono code d’ogni specie: a chi di porcello, a chi di puzzola, a chi di gatto o di caimano… Le conseguenze saranno divertenti, ma anche pericolose, visto che qualcuno cerca di dare agli ebrei del Ghetto la colpa dell’accaduto. Ed è una fortuna che bambini e angeli stiano all’erta, decisi a risolvere il mistero delle code una volta per tutte…
Gli angioletti si chiamavano Pissi e Pussu. Ci diedero da leggere, a noi che eravamo alle medie, che parlavamo di tette e fica ogni minuto della nostra vita, una storia con degli angioletti che si chiamavano Pissi e Pussu. Ma vaffanculo, va’. La cosa peggiore fra tutte fu che metà della classe si beccò questo (indovinate chi c’era fra gli sfigati?), mentre l’altra metà ebbe da leggere un giallo BELLISSIMO che solo a sentire la trama mi venne un moto di invidia. Triste destino.

ED INFINE IL NUMERO 1: PENSIERO CRITICO NELLE SCIENZE DELLA SALUTE

Di questa pietra miliare nella storia dello squallore voi vedete qui nell’immagine l’edizione fica: io manco questa c’avevo, perchè per risparmiare comprai quella schifosa in carta rosa (con stampati su i miei dati personali) in modo da evitare che ci si potessero fare le fotocopie.
Ovviamente il numero 1 della mia classifica non poteva che essere lui, il libro di Giani. Per una esauriente quanto soddisfacente escursione nel meraviglioso mondo che il professor Umberto G. (così si firma e così difatti mi ha firmato il libretto) ha creato per gli studenti dovreste leggere tutto il libro, per una esperienza ai limiti della conoscenza e della tolleranza. Vi riuscirò a dare solo una piccola impressione di tutto ciò che questo libro cela dietro la sua elegante copertina brossurata (che manco avevo, come vi ho già detto).
1) Il libro è un romanzo, e per di più un giallo, in cui lui è il protagonista/detective geniale che risponde al fantasioso nome di Professor Stat, in quanto insegnante di Stat-istica (come lui stesso dice). Il romanzo finisce e non dice nemmeno chi è il colpevole.
2) Si da’grande peso al critical thinking nella nursing diagnosis della post modern society illness narrative sickness evidence based cutpoint randomized trial disease. Mio dio, quanto inglese inutile in quel libro! Quante sigle inutili!
3) C’è un personaggio che si chiama Gionatan. Scritto così. Per di più cambia sesso da maschio a femmina, perchè, essendo tra l’altro il libro infarcito di errori di grammatica, non c’è stata evidentemente revisione delle bozze. Per di più, tutte le parole greche, di cui il libro è infarcito essendo culturalmente così elevato da permettersi di attingere alla classicità per spiegare gli arcani del mondo moderno, sono scritte male e/o con/senza accenti e/o spiriti sbagliati/assenti.
4) La parola “allorquando” viene usata almeno una volta a pagina.
5) E’ impaginato male. Nel 4° capitolo compaiono i personaggi di Mariella e Sor Pampuri (facce conseguenti–> O__O ), che saranno presentati solamente nel 6° capitolo.
6) Le parti inutili. Nel capitolo 3 passa un numero di pagine indicibile a parlare di nazisti, e di come (qui cito) “…forse, senza la statistica, il regime nazista avrebbe avuto difficoltà ad affermarsi.” E poi Gesù, pagine piene di esperimenti di cui non c’è traccia su internet, episodi e personaggi sconosciuti al mondo intero.
7) Mentre i personaggi parlano fra di loro nell’ambito della storia, citano grafici. Da dove li hanno cacciati? Li hanno proiettati? E scrivi almeno che avevano carta e penna!
8) C’è un personaggio che si chiama Garibaldi. Arrossisce ogni pagina in cui compare, sulle 3 volte.
9) C’è un personaggio laureato in chimica, in teologia e adesso anche medicina. Ma chi è, superman? (no,non è manco vecchio).
10) “Mi sono rimaste impresse quelle lezioni così diverse dal normale”      “Solo ora comprendo la profondità di quei capitoli”     I personaggi nel libro elogiano Stat, che sarebbe lui. Triste.

Positivi e componenti: storia di una Formula Magica.

postato il 16 Set 2011 in Cazzi e mazzi personali
da Deluded Wiseman

Onde evitare che Voyager, Mistero, l’Albero azzurro e altri programmi della stessa risma si lancino in elucubrazioni e strampalate teori sul significato recondito dell’arcana formula alla quale il titolo del mio ultimo post sembra fare riferimento, mi vedo costretto a giuocare di anticipo, illustrando rapidamente, non solo come venni a conoscenza della suddetta fomula, ma anche, e soprattutto, quali siano le sue origini. Appresi dell’esistenza dei magici versi da un marinaio orbo di Katmandu, che, in seguito ad una sconfitta ad Halo, si è visto costretto a consegnarmi in pagamento un lercio manoscritto che diceva di aver a sua volta ottenuto da un monaco trappista di Canicattì.

Dubbioso, accettai il manoscritto, capendo che il povero diavolo non aveva altro da darmi, se non il suo occhio di vetro scheggiato. Una volta lettolo, al caldo del mio letto nella locanda, appresi del segreto destinato a rivoluzionare il mondo dei giochi di carte.  Ma basta dilungarsi; molto meglio delle mie parole sapranno fare quelle dell’anonimo autore del manoscritto:

Barcellona, 1711

A quel punto del gioco, ero già ubriaco. Ero ancora in relativo  possesso delle mie facoltà mentali, solo una buffa ridarella, un bruciore allo stomaco e una generica incapacità di comprendere ed  elaborare le connessioni fra gli eventi del gioco, palesavano la penosa ed ebbra condizione nella quale versavo ormai da giorni.  Ero approdato al porto di Barcellona solo quattro lunghissimi giorni prima, pronto ad avviare una reddititizia attività commeciale, sfruttando il gruzzolo che ero riuscito a tirare su vendendo giaguari ai ricchi  Maraja del Sud-est asiatico.  Allora, non potevo certo immaginare come la febbre del gioco mi avrebbe rubato, in brevissimo tempo, non solo i soldi duramente guadagnati, ma anche la salute. E dire che non sono mai stato un gran giocatore; eppure, il gioco che in quegli anni imperversava in Catalogna aveva qualcosa di magnetico, un fascino infernale al quale era impossibile sfuggire. Non aveva un nome ufficiale; ma i più, nelle bettole, lo chiamavano “Arkamon”.  Era un empia fusione fra due giochi celebrei già da tempo, due giochi che si erano portati nel baratro i fegati di mezza Europa: “Uno alcolico”, e “King’s”.  Semplicemente, “Arkamon” univa l’esagerata propensione al bere e l’impietosità verso le distrazioni dell “Uno alcolico”, alla follia normativa del “King’s”. E provate voi a tenere il conto dei turni e a ricordarvi di chiamare i vostri compagni di gioco con appellativi ridicoli, dopo giri e giri passati a subire quei dannati “+4” e a bere i relativi, dannati anch’essi, sorsi. Io, personalmente, non ci riuscivo. E così, da quattro giorni ormai, mi trascinavo di balera in balera, nutrendomi di baguettine catalane e zumi di frutta per risparmiare, e passavo le nottate a sbronzarmi e perdere soldi a quel diabolico gioco. Anche quella sera, non era diverso: non vi riuscirà, dunque, difficile capire perchè, giunti ad uno stato avanzato della partita e della mia ubricatura, io non volessi arrendermi alla mancanza di carte blu dalla mia mano, e al sorso di birra calda che ne sarebbe stata la conseguenza. Così, poggiata la mano sul mazzo, preparandomi a pescare, iniziai a pensare, a sperare, a pregare, per Dio, che ci fosse qualcosa dietro al Gioco, una mente, un pensiero, un Cuore delle Carte! Perchè come poteva mai essere che fosse solo il Caso a regolare tutto, come potevano le umane sventure e le umane fortune dipendere solo dal casuale ordine dei turni e dalle ancora più casuali posizioni delle carte del mazzo? Poteva non esserci alcuna misteriosa forza, ma solo l’impietosa fatalità? Io, in quel momento, mi rifiutavo di crederlo. E proprio allo Spirito che si celava, doveva celarsi, dietro a quel mazzo e ad ogni altro mazzo di carte nel mondo, io fortissimamente mi appellai in quei drammatici momenti, la mano ancora poggiata sopra alla pila di carte. Fu solo la poco cortese esortazione di uno dei miei compagni, non saprei dire chi, che mi scosse dal mio assorto sperare. Ed a quel punto, alzati gli occhi, le parole vennero fuori da sole: “Carta..tu che sei positiva e componente, color del cobalto..!” Gli altri giocatori mi guardavano nella tipica maniera in cui un ubriaco guarda un ubriaco credendonosi meno ubriaco di lui; io, da bravo ubriaco, me ne fregai: girai la carta, e rimasi così, la mano rivolta al cielo e la carta bene in vista. Con un ghigno serafico fissai i miei avversari negli occhi, uno ad uno, osservando compiaciuto nei loro occhi la variopinta gamma di emozioni che va dall’incredulo all’irato;  Eduardo, l’alchimista italiano, sembrava aver visto un empio miracolo con quei suoi occhi ebbri che dovevano aver osservato qualche intruglio non prettamente alchemico di troppo; Lukas  emise un rutto di disappunto dalla sua un tempo pregiata ugola, famosa in tutti i regni alemanni per la squisitezza dello yodel che sapeva partorire, prima di essere devastate dal fumo e dall’alcol; Matja, invece, quella specie di saltimbanco russo, sembrava covare il risentimento più vivo per ciò che era accaduto; dal canto suo, Il-al-rhia, l’ ispano-marocchina che nella vita di tutti i  giorni guidava con pugno di ferro una feroce banda di briganti mori, sembrava pronta a mozzarmi la testa da un secondo all’altro. Senza smettere di sorrdiere poggiai la carta, un 7 di un glorioso e scintillante blu cobalto, sul mazzo, e assaporai le imprecazioni che in quattro idiomi differenti, dei quali neanche uno mi era comprensibile, si levavano dal tavolo; e il gioco continuò.

Ormai tenere il conto dei turni era diventato davvero difficile, ad ogni momento l’un l’altro ci si accusava impietosamente di distrazione, e non a torto; e poi era quella fase del gioco in cui tutti hanno poche carte, ed è difficile che passi un giro senza che qualcuno debba pescare. Ma è proprio qui che io mostrai il mio asso nella manica: la formula continuava, incredibilmente, ma forse non tanto, a funzionare.

“Carta tu che sei positiva e componente, color dell’amaranto..”; “Carta tu che sei positiva e componente, color dello zaffiro;  “Carta tu che sei positiva e componente, color dello smeraldo..”; mi bastava semplicemente recitare questa semplice formula al momento di pescare, e mai, mai una solo volta in quella partita, fui costretto a passare il turno. Magia? Fede? Fortuna non di certo. Nè trucchi o inganni di alcun tipo, lo posso giurare sul mio onore, se questa parola ha ancora un qualche valore da quando spreco le mie ore nelle bettole. Lo posso giurare sulle Carte e sull Azzardo, su questo di certo nessuno mi accuserà di giurare alla leggera. Eppure, non tutti sembravano convinti della mia onestà, e ci mancò poco che non mi trovassi la gola aperta da un orecchio all’altro per mezzo di un arruginito pugnale ricurvo ornato di opale e madreperla. Solo grazie all’italiano, il cui senso scientifico, ancorchè offuscato,  gli aveva reso evidente l’impossibilità di truccare il mazzo con tale finezza, si riuscì a placare la barbara furia dell’islamica, e a convincerla che non ero un abile baro. E così, salvata la testa, conclusi in pochi turni la partita, poggiando sul mazzo anche la mia ultima carta, un bel 3 blu.  Mi aggiudicai non solo un gruzzolo che mi avrebbe permesso di continuar a giocare e, insieme, sostentarmi, ma anche una gloriosa vittoria sulla concezione che dietro un gioco di carte non ci sia che il caso. Io ormai ero convinto del contrario, e forse anche Lukas  e Matja iniziavano a comprenderlo, almeno a giudicare dall’atteggiamento rispettoso che mostrarono nel pagarmi, in ruolo della scorbutica riluttanza che mi sarei aspettato. Perfino quella pazza cagna infedele, perfino lo scienziato, sembravano aver capito che non solo non si trattava di una truffa, ma che poteva esserci qualcosa di più del mero gioco. 

E poi? E poi, finita una delle due partite più importanti della la mia vita, continuai a giocare e a viaggiare, fiducioso nel potere che mi aveva aiutato. Venezia, Marrakesch, Istanbul, Samarcanda, Katmandu, Parigi; poker, blackjack, arkamon, ramino; le sale da gioco di mezzo mondo conosciuto, e  i tavoli di tutti i giochi in cui ci fosse da pescar carte, conobbero me e la mia formula. Ovunque destai stupore, incredulità, a volte rabbia, altre volteil più puro entusiasmo; e ovunque riuscii a riempirmi le sacche d’oro. Ma non abbandonai il gioco d’azzardo:  dentro di me ben sapevo, c’era una voce che me lo diceva chiaramente,  che se avessi smesso di sguazzare nel lordume delle balere e arricchirmi a danno dei miei malcapitati avversari, sarei riuscito a tenere stretto il gruzzolo per ben poco.

E così,  un giorno come un altro, decisi di testare la mia abilità, o comunque si voglia chiamarla, nelle sale da gioco al di là dell’oceano.  Pensvo che la giovane terra delle opportunità molto avrebbe potuto offrire ad un giocatore affamato di vittoria.  E probabilmente, molto avrebbe avuto da offrire a qualcuo il cui stile non fosse stato così duramente osteggiato dai coloni. Invece, i frequentatori dell’ Jack in the Box Saloon di Newark, New Jersey non accettarono di buon grado la mia formula segreta. Non saprei dire, a onor del vero, il perchè. Forse troppo bigotti per accettare un potere che chiaramente non veniva dal loro messia, troppo bifolchi per comprendere la magia delle carte, gli abitanti di quella terra tanto puritana quanto dimenticata da Dio mi bollarono come baro, e stavolta nessun arguto erudito(quale erudito avrei potuto trovare nel continente dei mandriani?) era lì per aprire gli occhi ai miei avversari. E così, conclusa con una scarica di piombo nel mio addome la seconda partita più importante della mia vita, affido a questo foglio il segreto della mia ormai antica fortuna.  Spero che qualcuno lo trovi, che qualcuno apprenda la lezione e impedisca che siffatto segreto si perda per sempre. Se così non dovesse accadere, vorrà dire che qualcuno di più grande e saggio di me ha deciso che l’uomo non è pronto per tali rivelazioni. Ma chiunque tu sia, se stai leggendo, ricorda queste parole: positivo e componente. Positivo. E componente.”

E questo, è il manoscritto grazie al quale oggi sono vittorioso vincitore di vari giochi di carte&affini. Avevo deciso di tenere il segreto per me, ma adesso che le cose stanno venendo allo scoperto, mi sono visto costretto a rivelare al mondo la verità.

Che Dio ci aiuti.

L’UMANITA’ VIAGGIA

postato il 11 Set 2011 in Main thread
da Viandante Solitario

L’umanità viaggia come

pagine sparse al vento

nelle notti invernali

e quando i sentieri

si incontrano sui monti

il solitario cammino

la salita abbandona.

E nell’abbraccio del cielo

l’uomo trova se stesso.

Carta, tu che sei giallastra e componente, color dell’ocra.

postato il 11 Set 2011 in Main thread
da Deluded Wiseman

Sto per scrivere una cosa molto nerd. E un po’ creepy. Insomma, una cosa che non mi rende molto cool, ma non fa niente(Dante, ti prego aiutami o fammi fuori). Si tratta di carta, ovviamente, un tipo di carta specifica con la quale ho un rapporto particolare. No, non è la carta igienica, o comunque non è quella ciò di cui voglio parlare. Si tratta, e lo dico con un grasso e unticcio orgoglio nerd, della carta dei fumetti vecchi, mi riferisco in particolare a quella che, negli anni ’70 aveva il privilegio di ospitare le colorate e innocentemente fighissime avventure dei supereroi Marvel, per gentile(?) concessione dell’Editore Corno, il primo editore italico a portare nello Stivale le suddette colorate vicende(non voglio sminuire i rispettabilissimi fumetti d’altro genere, dal cowboy al porno, che pure, appartenendo a quell’epoca, odorano similmente. Però non li ho mai letti molto, o comunque non li ho mai annusati con particolare zelo, quindi sticazzi). Anche la carta dei libri vecchi è bella, ha quell’odore penetrante e quel giallino cultura austera che anche il manuale dei panzarotti ha l’aria di un trattato di filologia sumera. Però a me la carta dei fumetti prende di più, ci sono più legato per vari motivi e soprattutto per uno in particolare: le parole del libro le leggi sulla pagina, ok, ma l’azione poi, a meno che tu non abbia la fantasia di un cardo, si svolge nella tua mente, la pagine col testo è solo l’imput. Nel fumetto invece no, è tutto lì sulla  carta: la descrizione, il dialogo e l’azione stessa, si stampano nella testa esattamente come sono nell’albo, e non c’è nessuna operazione di immaginazione(il che è tanto un pregio, quanto un difetto). Il libro puoi anche ascoltarlo, il supporto fisico serve solo ad avere un’esperienza di lettura più intima e vicina al testo, il fumetto se non stringi la pagina fra le mani non è nulla. E’così legato al suo supporto fisico, che per quanto mi riguarda molte delle storie vecchie, ristampate in edizioni nuove perdono metà del loro fascino: sembrano solo delle avventure fuori dal tempo, troppo semplici e variopinte per sopravvivere al fianco delle loro discendenti, più serie e mature, almeno quelle fatte bene. Però se l’edizione è originale il discorso cambia; certo, niente trasformerà “I Fantastici 4 contro l’Uomo Impossibile” in  ”Watchmen”, ma per quanto mi riguarda bastano quella colorazione zingara e imprecisa resa ancora più ignorante dall’alternanza pagine colorate-pagine bianco e nero (poi soppiantata, con profondere di annunci tamarri “Tutto a colori”) e quell’odore inimitabile a conferire a quelle vetuste vignette un senso di ingenua e immaginifica epicità, come quella di pitture e incisioni antiche che ci affascinano ancorché rozze e rudimentali, e rendere godibile qualunque baggianata anni ‘60. Ma poi l’odore, devo ripeterlo. Mi sa che questo è il punto nerd&creep: a me il profumo delle ingiallite pagine dei fumettazzi anni ’70 piace proprio, è inimitabile. Non lo so perché è diverso dal generico (e comunque esaltante) odore di pagine vecchie. Boh. Saranno i colori zingari, le manine unticce di tre generazioni di nerd che le tocchicciano e le accarezzano, sarà che sono stampate su fogli di carta igienica riciclata. Non lo so, però trasuda storia, e storie. Miste: odore delle storie dei supertizi in calzamaglia, della storia di dell’intrattenimento leggero, degli epici viaggi di quell’albo fra cantine e scaffali, e delle storie di tutti i gonzi che lo hanno posseduto, lasciandoci un segno, una macchia di caffè, un nome, una macchia di caffè che non ci pare tanto, ma una macchia marrone SICURAMENTE altro non può essere, e facendoti chiedere cosa cazzo spinga un uomo a spendere L.200 per fare i baffi a Capitan America, o per colorare il costume dell’Uomo Ragno di lillà e azzurro. Chiuderò in bellezza, raccontandovi di quando mia madre mi aveva comprato il glorioso “Fantastici 4 n.56” per natale, impacchettandolo solo dopo averlo inscatolato per non farsi sgamare subito, fallendo perché io già in macchina esaminando i regali come tutti i bravi bambini fanno avevo percepito l’odorazzo di fumetti vecchi. Lo so, è un incesto fra un aneddoto e uno spoiler, ma non avevo il cuore di narrarlo cristianamente.

No amici, non ve ne andate! È un feticismo socialmente accettato, chiedete pure a tutti gli appassionati in quelle le fiere del fumetto che non ho MAI frequentato!

C’è a chi piacciono i piedi, a chi le scarpe, a chi le carrozzerie cromate, a chi le tette. Bè, a me piacciono le tette i fumetti vecchi, carta compresa, sì.

 

 

PS:servirà un post per spiegare il titolo.

 

Una strana giornata

postato il 9 Set 2011 in Main thread
da Bread

[Ho deciso di scrivere una breve, stupida storia sulla carta. Niente di troppo originale, ma mi sembrava simpatica l’idea (ispirata dal post di Azazello)]

Ludovico si svegliò dolorante intorno alle cinque e trenta del mattino, era ancora presto, la sveglia sarebbe suonata ben trenta minuti più tardi. Tuttavia i dolori intestinali non gli permettevano di riaddormentarsi, pensò: “ecco, la diarrea”. Gli accadeva sempre quando era in ansia, e per l’appunto quel giorno avrebbe dovuto sostenere un esame. Scese dal letto tutto assonnato e si diresse al bagno; una volta liberatosi si accorse con sorpresa che mancava il rotolo di carta igienica. Cercò nel mobile dove teneva l’altra carta. Niente. Lavatosi come meglio poté uscì dal bagno stizzito dall’inconveniente, erano ormai le sei meno un quarto, fermò la sveglia, ormai inutile, ed accese la luce. Guardandosi intorno si accorse che sugli scaffali della sua libreria non era rimasto più niente se non i soprammobili che teneva davanti ai libri. Il resto era svanito, la scrivania era preoccupantemente sgombera da tutti quei fogli e cartacce che abitualmente la occupavano. Restò per un poco ad osservare la stanza inebetito… sebbene turbato nel profondo da quella strana situazione non si perse d’animo, pensò: ” farò tardi all’esame! quando torno cercherò di capire cosa sta succedendo”. Si vestì rapidamente e frugò nei cassetti alla ricerca del libretto (anche nei cassetti mancavano all’appello varie cose), del libretto trovò soltanto la copertina di plastica che in genere lo conteneva. Frugò nel suo portafogli per cercare i documenti; alla carta d’identità era toccata la stessa sorte del libretto: solo la fodera,
non notò l’assenza di contanti dato che il suo portafogli ne conteneva raramente. Scese e si affrettò alla fermata dell’autobus, giuntovi si cacciò una mano nella tasca per prendere una sigaretta, ma vi trovò solamente un ammasso di tabacco sparso e dei piccoli cilindri bianchi. Estrasse dalla tasca quel mucchio informe e lo gettò furioso in un cestino vicino alla fermata.

Quando Ludovico giunse all’Università in questa regnava il caos. Vide gente che correva a destra e a manca, vide gli addetti alla segreteria in preda al panico che litigavano tra di loro, vide professori fissare con sgomento l’interno delle loro borse. Restò al centro del salone d’ingresso per alcuni minuti a fissare incredulo quella situazione che mai nella vita avrebbe immaginato di vedere. Fu risvegliato dal suo stato di trance da un impiegato gobbo che correndo per la sala lo urtò e gli urlò: ” E’ scomparsa la carta!!”

Ludovico capì. In un attimo quelle parole pronunciate da quel bizarro figuro gli fecero collegare tutta la serie di strani avvenimenti di quella giornata. Era scomparsa la carta. Documenti, registri, incartamenti varii… tutto scomparso. Contanti, scomparsi (eccezion fatta per le monete). Uscì da quel luogo ove era ormai impossibile restare, ma la situazione che trovò al di fuori fu ancora peggiore. Risse ed aggressioni in ogni angolo della strada, nel disperato tentativo di accaparrarsi gli spiccioli altrui; le forze dell’ordine cercavano di ristabilire la calma arrestando ogni tanto qualche facinoroso ma la totale assenza di documenti rendeva difficile il loro lavoro. Ludovico cominciò a correre verso casa per mettersi in salvo, arrivatovi accese il televisore. Il telegiornale faceva il quadro della situazione: in tutto il mondo regnava il caos. La popolazione era nel panico per l’assurda sparizione, i ladri aggredivano i passanti, i predicatori annunciavano la fine del mondo!
Ludovico si sedette in terra in un angolo della stanza e crollò: pianse, pianse per ore finché non chiuse gli occhi credendo di morire.

La sveglia suonò impietosa alle sei del mattino. Ludovico si svegliò con ancora nel letto il libro dal quale aveva ripetuto fino a tarda notte. Scese dal letto e fissò la sua stanza, ancora turbato dal sogno fatto quella notte, ma non aveva tempo: avrebbe fatto tardi all’esame, afferò la borsa, prese il libretto dal cassetto e scese di corsa le scale verso la fermata dell’autobus.

Tu non hai fame. [Leggi anche: pubblicità 2, il ritorno]

postato il 8 Set 2011 in Cazzi e mazzi personali
da VaMina

E’ da tempo che volevo parlare dello spot dei sofficini, quello della dannata lucertola, insomma. Il fatto è che mi crea numerosi problemi. Per prima cosa, i sofficini mi piacciono, quindi odio quella pubblicità. Sempre per prima cosa, le lucertole sono schifose. Parlando di questa in particolare, potevano applicarsi di più a disegnarla, ché è sgraziata e strabica, ha una voce così disturbante che, nel campo del fastidio, è possibile paragonarla solo al tizio che suona le prime quattro note di Besame Mucho a ripetizione sotto casa mia, oppure all’arrotino, e nonostante tutto questo non è schifosa come le lucertole vere. Che sono proprio schifose. Chi mai riuscirebbe a mangiare con una lucertola che lo fissa? Figurati se parla pure.
Scenario:
Io tengo in mano la padella con dentro i sofficini fatti con tanto amore, mi giro e trovo questo rettile immondo che mi guarda, e parla. E mi chiede: “Tu non hai fame?”. Allora, innanzitutto non credo che qualcuno avrebbe fame. Ma a parte questo, credo che nessuno riuscirebbe a pensare al cibo in un momento come questo. Lo ripeto, c’è una lucertola che mi osserva allegramente e parla, e mi chiede se non ho fame. A questo punto le mie reazioni più probabili, se non mi sono appena calata un acido, a causa del quale potrei considerare normale la faccenda e fare il sorriso al sofficino con la forchetta, sono varie.
Prima possibile reazione:
Fuga!
Seconda possibile reazione:
Dato che stringo la padella con i sofficini appena fritti nell’olio bollente, scaglio il contenuto contro la lucertola, quindi, fuga!
Terza possibile reazione:
Dato che ho sempre la suddetta padella in mano, butto a terra i sofficini e comincio a picchiare sulla testa la lucertola con la padella, mentre grido alla famiglia “Fuga!”
Quarta possibile reazione:
Svengo, e dato che sto ancora tenendo la maledetta padella, mi verso olio e sofficini addosso e mi ustiono. La mia famiglia si dà alla fuga lasciandomi da sola con la lucertola.
In realtà i sofficini hanno una lunga tradizione di pubblicità pessime. Una volta ho visto quella datata ’86, che riusciva a contenere in pochi secondi il bambino più odioso del mondo, la mamma devota e deficiente, e la frase tristissima “Mamma, anche tu sei un campione!”. Appena finito di vederla, ho pensato, ma allora siete recidivi!
Però devo ammettere che le pubblicità degli anni ’80 erano tutte più o meno così, soprattutto per le mamme lobotomizzate.
Tornando alla lucertola, non c’è molto da dire, cioè, Gesù, è una lucertola. Una lucertola a grandezza umana.

Corollario:
“..Che poi non è tipo un camaleonte?”
Lo è proprio, ma io mi sono fatta tutte queste scene in testa di lucertole. E poi i camaleonti sono perfino più brutti.

In morte di Socrate

postato il 8 Set 2011 in Cazzi e mazzi personali
da Vobby

(Socrate è stato condannato a morte; i suoi discepoli sono disperati, e decidono di riunirsi intorno a lui per ascoltare le sue ultime parole, già rassegnati all’idea che il loro maestro rifiuterà la fuga. Una nostra vecchia conoscenza, Eumolpo, si reca per primo dal nostro pederasta preferito, certo che la sua compagnia lo avrebbe confortato in queste difficili ore.)

-Socrate: (nell’atto di posare un bicchiere dopo averne bevuto il contenuto in solo sorso) “hic”.
-Eumolpo: Maestro! Padre spirituale di noi tutti! Hai già assunto il veleno mortale, senza bisogno di conforto alcuno?!? Quanta forza d’animo! Che coraggio!
-S: Ma che cazzo dici, pezzo d’idiota! Sto tracannando vino, altro che veleno! La cicuta è in quel bicchiere all’angolo del tavolo, ma -hic- ho cambiato idea, non la berrò per nessun motivo al mondo!
-E: L’ebbrezza deve aver offuscato la tua mente, oppure stai scherzando! Metti fine alle tue sofferenze, maestro, e alle pene di chi ti ama! Vuota in fretta l’amaro calice!
-S: Ma di che sofferenze parli, cretino! Su, scoliamoci insieme quest’altra bottiglia di buon vino, prima che io scappi.
-E: Hai davvero cambiato idea allora, o Socrate? Fuggirai da Atene come di avevamo suggerito? Questo mi rende felice, ma anche confuso..
-S: E certo che fuggo! Solo un coglione resterebbe qui a farsi ammazzare da qualche boia fetente, servo di uno stato corrotto. Nè mi sembra più saggio uccidersi con la cicuta, quando potrei trascorrere un’altra decina d’anni in compagnia di teneri fanciulli e dolce nettare! Ah!
-E: Ma… Maestro, io… noi credevamo che tu avessi scelto di accettare la sentenza del Tribunale, che tu desiderassi morire pur di insegnare a noi e ai posteri il rispetto per la Legge, la deferenza nei confronti dell’autorità, verso le istituzioni di questa Repubblica… perché adesso parli di corruzione dello Stato? La Democrazia è il sistema di governo migliore mai creato! Davvero, non capisco..
-S: E allora bevi, che “in vino veritas”, come diranno i futuri! E metti da parte questo tono solenne, queste parole altisonanti, e soprattutto quelle maledette maiuscole! Ora basta. So cosa vi ho detto. Ho parlato molto, troppo, senza davvero comprendere il senso dei miei stessi insegnamenti. Ma ho fatto bene a bere, in questo momento che poteva essermi fatale! Ho capito qualcosa, ho visto le cose con più -hic-, con più chiarezza! E’ tutto sbagliato, Eumolpo, tutto falso. Questa notte fuggirò, adorato allievo, perchè ho smesso di vedere la giustizia in questo stato che troppi si ostinano a chiamare giusto!
-E: Ma cosa dici, Socrate! Questa è la Democrazia! E’ lo Stato giusto per eccellenza, il governo di tutti!
-S: Ora mi stai facendo girare le palle, Eumolpo! Bevi, che ne hai bisogno. Questo tuo stato così giusto mi vuole morto, te ne sei già dimenticato? Smettila, dimentica quello che ti hanno insegnato, scordati delle mie stesse parole, ma ascoltami ora! “Il governo di tutti” non è altro che il governo dei demoi, dei gruppuscoli d’interesse, non sono altro che delle schifose lobby! Fanno finta che ci sia una reale competizione per il potere, loro, quella maledetta accozzaglia di mercanti e usurai, assumono il comando dello stato e lo usano per fare ancora più soldi! La feroce conquista dell’Eubea, i furti della lega delio-attica (non merita maiuscole!)… Questi scempi, tali vergognose macchie sulla storia della città, credi che abbiano almeno servito gli interessi di tutti gli ateniesi? Col cazzo! Affogano nel lusso questi bastardi, nello sperpero e nella speculazione* di risorse pubbliche! Li vedi con le loro triremi e quinqueremi, a farsi i giretti del Pireo, mentre il popolo, quello vero, e i meteci, nati stranieri, vivono di stenti e lavorano per loro, senza avere alcun diritto..
-E: Ma cosa vai dicendo, Socrate! Il popolo intero vota, e i meteci non sono cittadini, sono stranieri, appunto, è giusto che non prendano parte alle decisioni politiche!
-S: Ancora a parlare di giustizia, e di giustizia in questa politica??? Continua a bere, deficiente! E fai attenzione: certo che gli stranieri non sono cittadini, le nostre leggi sulla cittadinanza fanno rivoltare lo stomaco! Ci piace, anzi piace a loro, agli stronzi pieni di dracme, farli lavorare come muli, questi poveracci.. per quante altre generazioni dovranno spalare la merda dalle strade, prima di cominciare a votare?!?
-E: Ma -hic- è vero ma… E’ la volontà popolare, ti ripeto, -hic- no?
-S: Certo che no! Quale volontà? Branco di pecore, questo è diventato il popolo sovrano, o forse lo è sempre stato! Sono convinti di discutere e di informarsi, nell’agorà, e invece stanno lì a farsi rincoglionire e manipolare da qualche sofista prezzolato, maledetti linguivendoli!
-E: Sì! Che merda i sofi..-hic-, i sofisti! Questo lo abbiamo sempre detto!
-S: Ma non solo loro: ogni rito cittadino, ogni festa, ognuna di queste cazzate non serve ad altro che a irregimentare, a far marciare in fila, col passo dell’oca, senza nemmeno saperlo, questo maledetto popolo di servi…!
-E:…Anche la tragedia?
-S: Anche la tragedia! Serve solo a confondere e distrarre chi dovrebbe decidere i destini della polis!
-E: Ma la funzione -hic, la funzione educativa…
-S: Puah! Eschilo aveva qualcosa da insegnare, e forse anche Sofocle! Ma che affoghi nell’Acheronte la nuova generazione di tragediografi, Euripide coi suoi degni compari! “Oh, poveri i figli di Medea! O che miserie le piccole Troiane!” Di questo piange il “popolo sovrano”, quando dovrebbe governare! Puah! Psicodrammi adolescenziali senza il minimo spessore, privi di qualsivoglia messaggio politico!
-E: Sì… Sì! Hai ragione maestro! Hic! Finalmente anche io ci vedo chiaro!
-S: (Ormai completamente sbronzo ed euforico) Bravo, mio dolce discepolo! Il vino ha dissipato le nubi anche dalla tua mente! Hai capito finalmente le bugie che si annidano dietro…
(Entra Platone)
…il rispetto delle leggi, la deferenza verso l’autorità, la dignità delle istituzioni! Forza ora, alla goccia!
-E: Sì!
(Bevono felici, senza capirci proprio più un cazzo)
(Eumolpo scompare sotto il tavolo, definitivamente ciucco)
-Platone: Socrate, Maestro, Padre Nostro! Quanta gioia mi dà la possibilità di assistere al tuo ultimo, supremo gesto di coerenza, saggezza e coraggio!
-S: Ma cosa dici Platone, questo è… (guarda il bicchiere che ha in mano. Inorridisce) MA PORCACCIA EUROPA INCULATA DA ZEUS-TORO!
-P: Sì, così! Bestemmia queste divinità false e bugiarde!
-S: Ma va’ a farti fott.. argh..
(Cade a terra. Rantola, muore. Platone si sente particolarmente commosso. Eumolpo russa.)

Fine

*non manca mai, la speculazione.

 

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