Hic Sunt Giaguares

postato il 26 Ago 2011 in Cazzi e mazzi personali
da Bread

Ecco a voi il resoconto della vacanza a Barcellona vista dalla mente malata di Bread!

Intorno alle due del 18/08/2011 dieci “stronzi” atterrano all’aeroporto di grintolandia.
Pans. E’ buono ma ricordavo meglio. Bus T1 –> appartamento. E’ il momento di pagare, Bread va nel panico perché non trova i soldi che aveva intelligentemente(?) spostasto in un calzino. Si decide di mangiare paella e si trova un ristorante con un cameriere pazzo che fa “salute fratello” portando birre grandi e costose; la cuenta ci pratica un foro nello sterno. Casa. Bob. Gigabob. Collasso. Araba Fenice. Con rinnovata grina si scende per le strade di barcellona dove Bread inizia a raccontare dell’epica battaglia tra i giaguari del brennero e le zebre a pois del taburno. Si dorme

Sveglia, colazione cos. Si va a smaltire nel parco con i fravuel stich (o come diavolo li chiamava l’Ermeneuta) le palline la guitarre etc. NOn ricordo più l’ordine degli eventi e cosa sia successo quando, quindi procederò in ordine sparso. Si prende del KFC da asporto e si va a casa a sopportare l’atroce visione di arrapaho. I dieci stvonzi in pveda a un attacco di cultuva vanno all’auditovium a sentive un concevto di chitavva classica.

MARE. special guest le amiche di Spasko. Si sguazza, l’Ermeneuta esprime tutta la sua grinta nello stile ciclico. Le corse sugli scogli fanno male ai piedi. Chi la fa, la mangi. Altri proverbi mangerecci. Spacciatori a ogni angolo, spacciatori che vendono erba ad altri spacciatori che pagano con l’erba. Barboni italiani. Menti malate (Ermeneuta, Bread, Sergio) partoriscono la “diarchia relativa” con personaggi quali il ministro della strada, quello del degrado e così via. Matteo si stupisce continuamente di ciò che fa Mattia, qualsiasi cosa faccia. Davk e Fabrizio uccidono i cartoni di sunny per fare le urne dei policastro awards barcellona 2011. Ilaria continua a proporre cerchi venendo ripetutamente insultata, ma poi la cosa funziona e scoppia la cerchiomania.

Cattedrali, gente con l’hang. Signora radical chic bolognese pazza che parla del papa a un tedesco dicendo: “nazi! Nazi!”. Ci dice che parc guell non dobbiamo vederlo perché è uno schifo: Gaudì si è commercializzato.

IL refill di Subway. La baguettina catalana. Totonn ‘o mast che ci regala mangiare epiche. Giggin ‘o zuzzus che ci vende un bongo rotto.

Davk e l’Ermeneuta iniziano la composizione di un brano su matteo mirra (il testo verrà poi gettato nelle pulizie finali)

Si sconnette con le scritte sulla guitarra, Jay collassa continuamente, Daria pure. Il male assale Bread, poi gli altri, specie Fabrizio.

Il Mirracolo di Mirra.

Le legnate che prende il Napoli. El rey del Mojito.

Welcome to Singapore, stoffe by Peppe ‘o sfrigiat.

Montjuic si rivela la giornata della grinta: cannoni (no, per una volta non è quello che pensate voi) la danza del riscaldamento di Davk, la ninjata dell’Ermeneuta. il coso che scorre sul cavo. Ritrovare i propri documenti. la spiaggia di notte con improvvisazioni live @ sconnessione su vari personaggi. La pula con i carrarmati battisabbia. Il tassista tarantella la mente di bread che era già live @ male per conto suo.

Si ritorna in divisa Barcellona Live, nel buio della rambla, con la tristezza nel cuore come dei paguri scacciati da Ipanema.

Un giallo d’eccezione

postato il 16 Ago 2011 in Main thread
da Azazello

Saranno state le undici e mezza quando l’ispettore Brugherio arrivò sul posto. “C’è un cadavere”, gli avevano detto, “nel bagno di una birreria locale”. L’ispettore sapeva bene che a Castel di Sangro, l’insipida località dove si era fatto trasferire per non avere più niente a che fare con i truculenti crimini metropolitani, c’erano solo due tipi di cadaveri: vecchietti, morti per conto loro nella solitudine delle proprie casette, e ragazzini dall’acceleratore facile; per il resto, la cosa più morta nell’arco di un centinaio di chilometri erano i gamberi surgelati che gli avevano propinato per cena – e la cosa, sia ben chiaro, era assolutamente di suo gradimento. Riluttante, quindi, l’ispettore entrò nella birreria salutando con un cenno le (molte) persone che conosceva tra gli avventori e si diresse verso la toilette. Lì, in una frazione di secondo, ebbe modo di pentirsi della sua riluttanza, del suo trasferimento e, soprattutto, dei gamberi surgelati: nel gabinetto, pieno di sangue fino all’orlo, si potevano distinguere con difficoltà una mano, un gomito e i lineamenti di un volto, mentre il resto di quello che costituiva a buon diritto il terzo tipo di cadavere di Castel di Sangro si poteva trovare sparpagliato a casaccio intorno al vaso. Dopo qualche istante di contemplazione l’ispettore si sentì di dichiarare con sicurezza:

– Beh, è morto.

Dopodiché, con la rassegnazione propria di un gesto compiuto tante volte da essere naturale, estrasse un paio di guanti in lattice dalla tasca della giacca e li infilò prima di cominciare l’esplorazione della scena del delitto.

– Intanto direi che non è un suicidio.

Forse perché era un po’ arrugginito, forse perché il giovane poliziotto locale e il grasso, ubriaco proprietario del locale che assistevano alla scena non sembravano troppo impressionati dalle sue deduzioni, per un attimo Brugherio si sentì sciocco, lì in ginocchio a cercare non si sa bene cosa sotto i pezzi di un cadavere smembrato dichiarando ovvietà.

– Agente Frollone, chiami il medico legale e la scientifica, qui non c’è molto da fare per noi.

L’agente Andrea Frollone era un giovanotto baldanzoso, prestante ed eccezionalmente imbecille che, sia per le scarse prospettive che gli offriva la sua città natale sia, soprattutto, perché la sua fidanzata trovava che la divisa gli stesse molto bene, si era dato al mestiere di poliziotto, che svolgeva con solerte inadempienza da ben tre anni. In questo periodo aveva diviso il suo lavoro in due componenti principali: la prima, d’ufficio, volta al conseguimento di una condizione psico-fisica tale da poter raggiungere la perfetta orizzontalità combinando il dondolio della sedia con l’appoggio per i piedi fornito dalla scrivania; la seconda, più d’azione, consisteva nel girare per le strade di Castel di Sangro guardando con sufficienza i coetanei sfaccendati, baristi, fruttivendoli o macellai, dall’alto del suo muscoloso metro e cinquantasette in divisa blu. Visto il personaggio, potete immaginare che nulla fosse più lontano dalla sua mente della possibilità di dover chiamare un medico legale, un giorno, e meno che mai la polizia scientifica, le cui cartine geografiche probabilmente non contemplavano nemmeno l’esistenza della sua cittadina di montagna. Insomma, alla luce di tutte queste cose, era più che lecito aspettarsi che il bravo agente rispondesse, tra l’impettito e il risentito:

– Dotto’, è impossibbile

Lecito o non lecito, però, il nostro ispettore non sembrava soddifatto:

– Chiedo scusa?

– Dotto’, il medico legale non ce l’abbiamo e la scientifica non c’ho il numero

Brugherio non poté trattenere una smorfia, cogliendo l’ironia della situazione.

– Allora contatti la sede dell’Aquila, di Pescara, di Napoli o di chi le pare e si faccia mandare qualcuno, no?

E poi volle aggiungere, sapendo di prendere in giro più se stesso che il ragazzo:

– Di solito come fate in questi casi?

L’Agente, non sapendo bene cosa rispondere, annuì e si allontanò cercando il numero del commissariato di Pescara con l’iPhone (ma non prima di rispondere a un SMS della sua ragazza). Brugherio si alzò faticosamente e comunicò al ristoratore di non toccare niente e di non far entrare nessuno nel bagno, dopodiché andò verso la cassa dove chiese informazioni su quanti e quali fossero stati gli avventori quella sera, quindi cominciò a girare per i tavoli dove, dopo un paio di domande di rappresentanza, spiegava la situazione e chiedeva di mantenere la calma. Finito il giro dei tavoli esterni tornò dal proprietario del locale lasciato a guardia del cadavere e gli domandò, indicando il gabinetto:

– Lo conosce?

L’omaccione, di nome Franco Heiss, i cui genitori (padre tedesco, madre italiana) si erano trasferiti nel paesino d’origine della madre, Rocchetta, col figlioletto ancora in tenera età, aveva vissuto una vita del tutto inutile, cambiando mestiere periodicamente perché si annoiava facilmente e perché non era capace di fare praticamente niente, si era sposato né troppo giovane né troppo vecchio con Berta Barale, una donna dall’insulsaggine paragonabile solo all’inutilità del marito, e aveva prodotto un figlio, Alessio. Questo figlio, contrariamente alle aspettative, oltre ad essere un bel giovane alto e vispo, aveva una mente piuttosto vivace e una spiccata capacità imprenditoriale che fin dalla prima adolescenza mise a frutto sfruttando il misero patrimonio accumulato dal padre per gestire, usando quest’ultimo come uomo di facciata, una serie di attività più o meno redditizie, l’ultima delle quali era appunto la birreria di quella sera, aperta in franchising con una azienda bavarese produttrice di birra. Franco, quindi, visto il passaggio della gestione familiare a suo figlio, con quel grammo di cervello che possedeva si rese conto di non avere veramente più nulla da fare, per cui si dedicò completamente al mantenimento di uno stato di costante e placida ebbrezza, unica attività che gli fosse mai riuscita congeniale. E dopo una vita così non poté fare meglio che rispondere:

– Eh…

Brugherio, che era un uomo di infinita pazienza e spiccate capacità deduttive, inquadrò il personaggio e decise di non prendersela per l’inutilità della risposta.

– Dunque?

Il signor Heiss volle riflettere sulla domanda per una lunga decina di secondi, fissando il nulla coi suoi occhietti liquidi, prima di rispondere:

– Lo conoscevo quando era intero

– E come si chiamava?

– Allora si chiamava…

E fissò il nulla.

Brugherio, che era un uomo dalla profonda compassione, commosso forse dallo sforzo mnemonico di un uomo in quelle condizioni, lo volle incoraggiare:

– Si chiamava…?

Ma il suo sforzo, come spesso accade agli uomini troppo caritatevoli, non fu ricompensato.

– Eh!

– Non si ricorda?

– Certo che mi ricordo!

– E allora perché non me lo dice?

– Perché non lo so

– Scusi, si ricorda o non lo sa?

– Mi ricordo che non lo so

Brugherio, che era un uomo dalla grande astuzia, non volle affacciarsi oltre nello squallore della mente del suo interlocutore e si limitò a chiedere:

– Quindi non eravate intimi?

Ma il destino degli uomini meritevoli è spesso nefasto e ancora una volta ottenne la risposta sbagliata:

– Certo! L’ho visto crescere

Così, senza la benché minima presunzione di averci capito qualcosa, Brugherio cercò di riassumere:

– Insomma: l’ha visto crescere, non sa il suo nome e si ricorda benissimo di non saperlo?

– No, il nome lo so.

L’ispettore, che era un uomo di vasta esperienza, sapeva che in certi casi devi rinunciare a comprendere e limitarti a prendere. Così si rassegnò a continuare la conversazione come l’aveva impostata il suo amico:

– E qual è?

– Giacomo

– E sa anche il cognome?

– Certo

– E qual è?

– Viglietti

Brugherio non era uomo da penna e taccuino, ma quest’informazione gli era costata talmente tanta fatica che non voleva correre il rischio di dimenticarla, per cui estrasse un block notes dalla tasca interna della giacca e vi scrisse, bello grande, “GIACOMO VIGLIETTI”. Quindi si rivolse ottimista al suo amico:

– Scusi, ma allora perché ha detto di non sapere come si chiama?

– Perché non si chiamava così!

Pentendosi di aver sfidato la sorte in quel modo, deciso a non dare un senso a quest’ultima affermazione, la appuntò diligentemente con la promessa di ripensarci dopo una notte di sonno e senza un banco di gamberi che cercava disperatamente di evadere dal suo stomaco. Quindi scrisse subito sotto il nome della vittima “NON SI CHIAMAVA COSÌ” e congedò il signor Heiss, sapendo da un lato che non poteva essergli di alcun aiuto e dall’altro che non poteva nemmeno essere un sospettato, non tanto per i vestiti puliti o perché avesse un alibi, ma perché un uomo simile, ubriaco, non poteva essere in grado di compiere alcunché, figurarsi un delitto tanto efferato o, guardandola da un’altra prospettiva, un’operazione complicata come fare a pezzi un essere umano.

Riflettendo su queste cose Brugherio uscì dal locale e si appoggiò alla parete accanto alla porta d’ingresso, si accese una sigaretta e, guardando il goffo collega cercare di contrattare telefonicamente con la polizia di Pescara l’invio di un contingente, concluse fra sé e sé che sarebbe stata una lunga, lunga notte.

*   *   *

Cosa rende questo inizio traballante un giallo d’eccezione? Facile: voi. I lettori sono invitati a scrivermi (in privato, naturalmente, per evitare gli spoiler!) cosa vorrebbero che l’ispettore Brugherio facesse man mano che la storia va avanti e io continuerò la storia seguendo le indicazioni di uno di voi. Naturalmente sono ben accetti anche consigli sul proseguimento della storia, eventuali nuovi personaggi e, perché no, su chi si rivelerà essere il colpevole alla fine, purché si mantenga una generale coerenza, ma in generale il senso della cosa è che voi “impersonate” l’ispettore.

Per spiegare un po’ come funziona, al momento abbiamo tre personaggi più o meno caratterizzati (l’ispettore, il poliziotto, il proprietario della birreria) e tre di cui sappiamo il nome e poco altro (la moglie del proprietario, il figlio e il morto), un luogo (la birreria), una collocazione geografica (Castel di Sangro, che si trova in Abruzzo) e un omicidio. Queste sono cose che non potete cambiare, perché la storia mancherebbe di senso se il morto resuscitasse o se il poliziotto diventasse improvvisamente una donna. Per il resto potete scrivere qualsiasi cosa, da “Brugherio cerca nel cassonetto accanto al locale se ci sono abiti insanguinati” a “Brugherio prende la sua pistola e uccide tutti”. Se l’azione (o le azioni) che volete fargli compiere prevede l’interazione con cose che non sono state nominate nella parte precedente, fintantoché è ragionevole assumere che queste cose ci siano, potrò prendere in considerazione l’istruzione. Per capirci:

“Brugherio chiede i nomi di tutti i presenti e li scrive sul suo block notes” – è perfettamente possibile perché il block notes è stato esplicitamente nominato

“Brugherio estrae la pistola e intima al suo collega di alzare le mani” – è plausibile, perché ci aspettiamo che un ispettore di polizia porti una pistola sulla scena di un crimine

“Brugherio prende un’accetta e ammazza tutti” – tralasciando l’improbabilità della cosa, la presenza di un’accetta in una birreria di campagna può ancora essere giustificata, quindi se il resto dell’istruzione è abbastanza geniale da giustificare la fatica di inserire un’accetta nello scenario sarà preso in considerazione

“Brugherio colpisce il suo collega con il Chi” – è senza senso e non sarà considerato.

Chiarito questo, non voglio dire che la storia non possa prendere una svolta, entro certi limiti, mistica o fantascientifica (cosa che, anzi, mi divertirebbe e potrebbe accadere se mi sento ispirato), ma solo che se non c’è nulla, nella storia narrata finora, che giustifichi un elemento delle vostre istruzioni sarà troppo difficile seguirle con criterio e quindi non potrò usarle.

 

La cadenza dei capitoli sarà mensile e spero di finire entro 4-5 post per non fare una cosa tremendamente lunga, ma potrebbe essere di più o di meno (sia l’intervallo che la durata) a seconda della disponibilità mia e vostra. Ci tengo a finirla, però, quindi in mancanza d’altro lo farò da solo. In generale, comunque, ogni capitolo sarà accompagnato dalla citazione testuale delle istruzioni su cui è basato.

Ultima cosa: potete anche fare istruzioni più complesse di una semplice azione (esempio: “Brugherio accusa il suo collega, se lui si mostra indignato ritira l’accusa e blabla”) e in questo caso sarà deciso arbitrariamente da me se è troppo complicato per essere usato o meno.

Le istruzioni inviatele all’indirizzo dark@bananastyle.net, eventuali chiarimenti potete richiederli in privato o qui.

L’eccezione che comincia la regola

postato il 7 Ago 2011 in Main thread
da cupnudeln

Vista l’insopportabile assenza di autori del blog che possano decidere l’argomento di questo mese, abbiamo (ho) arbitrariamente deciso di mettere un argomento a caso (scelto dal Caso appunto, con le dovute limitazioni, tramite l’ottimo random word generator) per il mese di agosto, allo scopo di non penalizzare lo sfortunato autore estivo, da un lato, né gli sfortunati lettori estivi quando l’autore di cui sopra dovesse venire a mancare. E quale migliore argomento poteva scegliere il caso, con tutte le sue limitazioni, se non l’eccezione? A presto con numerose improbabilità!

Cos’è questa improvvisa voglia di scrivere?

postato il 7 Ago 2011 in Cazzi e mazzi personali
da VaMina

E’ mio padre che dice -con parole diverse ma equivalenti- che se non è per studiare è inutile che stia in un posto, e che scrivo a fare su quello stupido coso, è il maledetto caffè bruciato che continuo a bere perché tanto lo brucio sempre, è sicuramente questa canzone, o anche questa, il letto da fare, la voglia di andarmene tipo in Brasile. E’ che scrivere è un’attività approvata dal mio psicologo, perché è fare qualcosa, e fare qualcosa va bene, ma non so se intende anche scrivere cazzate, utilizzando un’anafora alquanto banale, un sacco di anafore, perché quello è facile, non ci vuole impegno, e non so se lui pensava a un impegno. Che oltretutto io non metto impegno in quasi niente di quello che faccio, ma una grande serietà e gravità sì, quindi finisce che mi preoccupo un sacco per una cosa che ho scritto in due minuti, o che scrivo in due ore qualcosa di superficiale e privo di contenuti come un video di rapper pieno di gnocche col culo da fuori. Non so se scrivo per noia o per bisogno, per bisogno di scacciare la noia, per bisogno di fare la pipì. Ma se fosse per noia potrei fare un sacco di cose tipo spanciarmi sul divano a guardare la tivvù come una lobotomizzata che poi non è davvero fare qualcosa, almeno non qualcosa di approvato dal mio psicologo, tipo suonare il basso, ma è così lontano, nella custodia, devi aprirla, devi prenderlo, devi accordarlo, devi sopportare padre che dice ma se sei venuta per suonare il basso parole che in genere non ascolto perché me ne vado, tipo grattarmi la testa, fare il letto, lavarmi i piedi. Forse è solo per inerzia, perché tanto sto qui davanti, a non fare una ceppa, parlo come una persona depressa? Non sono depressa, grazie ho smesso, ho solo mal di testa. A me piace il mare, la sua vicinanza, l’odore, il rumore, guardarlo, sguazzarci, starci con il culo a bagno, leggere in sua presenza, camminare con l’acqua alle caviglie, ma lasciatemi in città.

[Motivo della pubblicazione: un blog pieno invoglia a scrivere, parola di Azazello]

Mi piacciono i treni, ovvero l’ennesimo post inconcludente di Vamina

postato il 6 Ago 2011 in Cazzi e mazzi personali
da VaMina

Preferisco il treno all’aereo, per varie ragioni. La prima è che il treno non vola. La seconda è che il treno non sta sospeso per aria. La terza è che non è privo di una certa poesia decadente (decadente riguarda soprattutto i regionali).
Si fanno interessanti conoscenze in treno. Una volta mia madre ha fatto amicizia con un intero gruppo di venditori ambulanti che dovevano raggiungere le rispettive postazioni sulle spiagge e mi ha anche comprato dei calzini, mentre un’altra volta io…
Fregati! Non c’è nessuna storia che riguarda me e i passeggeri del treno, in genere io li guardo sospettosa mentre ascolto gruppi dai nomi impronunciabili. Però la possibilità di fare interessanti conoscenze c’è.
Soprattutto se sei mia madre.
Mia madre vede il treno come un luogo meraviglioso, creato per permettere alla gente di socializzare e in genere di parlare un sacco e a lungo e con tutti. In verità mia madre vede tutto il mondo in questo modo.
Credo che uno sbarco alieno sulla terra avverrebbe più o meno così, se ci fosse nei paraggi mia madre:
Mia madre: ”Salve! Piacere, sono Giovanna”
Alieno: “Signora, noi siamo i rappresentanti del pianeta Vattelappesca, venuti sulla Terra per una missione”
Mia madre: “Venite in pace?”
Alieno: “No, signora*, siamo venuti per distruggere l’umanità e impossessarci del pianeta”
Mia madre: “Ah, è proprio un peccato. Pensi che una volta mio zio Elio, che era sposato con zia Fernanda, sorella di mia madre… sa, mia madre aveva undici fratelli, due maschi, nove femmine, ma in realtà mia nonna Filomena ha avuto tredici figli, però due sono morti piccoli. Tutte e due le mie nonne si chiamavano Filomena, quindi noi distinguevamo tra nonna Filomena di Napoli e nonna Filomena di Sant’Arpino..”
E così si eviterebbe un’incresciosa distruzione del genere umano, perché mentre mia madre parla della prima generazione, poi della seconda, poi della storia clinica del soggetto della storia e infine approda all’avvenimento di cui voleva parlare all’inizio, possono passare dalle 13 alle 27 ore. Intanto i governi di tutti gli stati sono stati avvertiti e hanno messo in piedi un esercito gigantesco che può fronteggiare la minaccia aliena.
Io ho ereditato dalla mia genitrice sia la capacità di parlare a lungo e senza riscontri da parte dell’interlocutore, sia quella di perdere il filo del discorso, più e più volte, come dimostra questa lunga digressione sulle sue abitudini sociali. Purtroppo ho ereditato anche la capacità di mio padre di non saper raccontare una storia e di non saperlo fare in modo da renderla interessante**, quindi, se volete vedere un film, non chiedetemene la trama, perché non solo parlerò di tutt’altro per mezz’ora e mi dimenticherò l’unico dettaglio che avrebbe potuto farvi capire il finale, ma vi annoierò anche mortalmente.
Tornando al punto di partenza, i treni sono indiscutibilmente meglio degli aerei. Pensate a quanti celebri film e libri sono ambientati in treno: Assassinio sull’Orient Express, Train de vie, altri che mi scoccio di nominare, altri ancora. Mentre quale film è ambientato in aereo? L’aereo più pazzo del mondo, e basta questo, perché è uno dei film più brutti che abbia mai visto. Non c’è proprio confronto. Non me lo immagino nemmeno Poirot che per indagare aspetta che la luce si spenga e che lui possa slacciarsi la cintura. Oltretutto, sul grande schermo, gli innamorati rincorrono i treni, non gli aerei, e nessuno sventola fazzoletti bianchi dal finestrino dell’aereo, se non vuole prima spaccare il vetro e poi morire anche.
Inoltre c’è questo fatto che gli aerei volano proprio. La visione delle nuvole non mi dispiace affatto, ma non compensa tutti gli svantaggi, l’atterraggio, il decollo. Il treno offre visioni di campi, città, paesini, fiumi, e in più non fluttua da nessuna parte e non vibra in maniera vomitevole. Non a caso sul treno NON ci sono sacchetti per il vomito a fissarti dubbiosi, della serie “mi prendi e mi inzozzi o ti contorci sul sedile e non mi prendi?”. Si avvicina l’hostess per chiederti se vuoi qualcosa da mangiare. No grazie, sto bene così. Ne è proprio sicura? Sì, davvero. Non vuole niente? Va bene, prenderò qualcosa, infatti la mia faccia verde stava cercando di esprimere fame, potrebbe darmi dei biscotti e un succo di frutta, così poi dopo posso usare il pacchetto vuoto per fare la seconda rigettata?
Sì, quando viaggio prendo sempre l’aereo, ma è una cosa che non mi piace affatto.

*Li sto immaginando educati, nel dubbio.
**Mia madre quando vuole sa raccontare abbastanza bene una storia, sono solo troppo-estremamente-eccessivamente lunghe.

Cosmogonia

postato il 2 Ago 2011 in Main thread
da ad.6

E prima che sul mondo fosse calata la prima notte tutto era già finito.

 

Erano soli, in due, da sempre, per sempre, e si sarebbero amati se assieme a loro fosse stato anche Amore, il quale però aveva ancora da nascere. Certo sarebbe accaduto, perché essi erano uguali, da sempre e per sempre, nel corpo e nello spirito, nel cuore e nella mente, nel tempo e nello spazio, benché tutto ciò non abbia alcun senso, visto che nessuna di queste cose essi avevano ancora creato.

Ecco tuttavia entrare in scena, non richiesto, il primo attore, increato perché esplicito solo in ciò che non è: l’infinito. Immenso, il suo potere permise che i due fossero infinitamente uguali e per nulla diversi, non immemore, quegli, che rapportata a lui ogni cosa è nulla. In tale primo, ilare momento di gloria (ne avrà altri, ma pallide ombre di ciò che fu), poté trovare luogo il secondo, indesiderato ed essenziale attore di questa breve commedia, colui che va sotto il nome di Caso o l’Indiscernibile. Questi fece sì che uno di quei due, né a noi né tanto meno a loro è dato sapere quale, nacque dal primo, inconsapevole respiro dell’altro e che i due fossero consapevoli di tale, indiscernibile differenza.

Differenza tangibile vi fu invece in ciò che seguì, nel non-tempo dell’indistinto susseguirsi delle cause: accadde infatti che l’uno, sentendo il peso della primogenitura (o forse per sopperire allo smacco subito nell’esser secondogenito) volle distinguersi dall’altro, il quale, a sua volta, per gli stessi motivi, sentì di essere profondamente differente dall’uno.

Rispetterò allora il loro volere ed uno sarà uomo e l’altra donna, benché ciò non abbia alcun senso per delle divinità.

Le cause primordiali erano tutte pronte e già effetti quando lui creò la materia e il mondo, che vengono prima del contenitore vuoto che crediamo essere lo spazio e lo plasmano d’intorno a loro stessi.

– Sia che le cause possano avere tangibili effetti, in luoghi e cose e che tutto sia mentre e perché io sono.

Lei, allora, tranquilla e indispettita, diede al mondo il movimento e fu un immane ed eterno conflagrare di fuoco*.

Lui la guardò, con stupore, complicità e fastidio, e vide in lei le eterne ceneri della sua opera in fiamme. Sicuramente non l’avrebbe avuta vinta.

Lui si dedicò allora all’idea del mondo che sarebbe stato, del mondo della materia, del mondo.

– Siano il vuoto e il freddo a separare l’incendio che divora l’anima del mondo.

E lei piegava il proprio volere e quello di lui di modo che quel vuoto e quel freddo avessero un senso intrinseco nel mondo e nel movimento.

– Sia il fuoco la luce e questa si avvolga su di sé, per mezzo della mia parola, affinché diventi stella e terra.

E lei, dolce ed imperiosa, toglieva alla parola di lui per dare al mondo, costringendolo nella rete delle leggi che al mondo spiegano il mondo, nel mondo.

E, dove la mano divina di lui scendeva a modellare, quella divina e finissima di lei scendeva nel mondo perché questo avesse senso anche senza la mano di lui.

Questa era la prima e più grande competizione, sebbene lui non ne avesse coscienza, vedendola maggiormente come conflitto. Era lei, come da principio, ad aver compreso che la loro guerra creatrice volgeva in verità il proprio duplice volto nella stessa direzione, nonostante lo facesse per vie opposte.

Così, irritato e calmissimo, quasi che già esistessero quelli ed altri sentimenti, quasi che siano in effetti mai esistiti, quasi felice, lui sentenziava, creava ed imponeva tutto il possibile, mentre lei voleva e col suo volere dava senso e compimento a ciò che lui vedeva invece completarsi in sé.

Fu allora con l’aiuto del primo attore che lui poté coprire con la propria voce tutte le diramazioni del possibile e in quel frangente non gli restò che dar vita a quella sua, sua creazione, dall’indiscernibile e materiale fuoco dei primordi.

Lui Parlò, come per la prima volta, e la miriade di possibili disposizioni, di possibili configurazioni dell’universo da lui immaginate iniziarono a mescolarsi e a prendere ordine, il quale, lui non riuscì ad avvedersene, doveva la propria esistenza solo all’opera di lei, vera vincitrice sull’Indiscernibile. Ecco allora che, per gestire l’innumerabile quantità dell’essere, a parola lui faceva seguire parola e tra le due ne diceva altre ed altre ancora, senza fine, senza requie, senza mai scioglierne la continuità. Ecco che si china, si prostra dinnanzi al trono che egli stesso ha eretto al primo attore e sta per esserne sopraffatto, perché il suo desiderio è il mondo e il mondo, adesso, necessita delle infinite parole di lui, ma, d’altronde, com’è risaputo le divinità sono gli esseri che si generano e si completano all’interno dei propri aneliti e che con essi finiscono (o iniziano) per coincidere. Lui quasi dipendeva, quasi scopriva di essere stato creato dal primo attore e già aveva poggiato il primo ginocchio al suolo, vassallo, quando lei si espresse per la prima e l’ultima volta.

– Parli troppo. È tutto così semplice – fece lei sorridendogli come mai aveva fatto. Gli pose un dito sulle labbra e creò il tempo, l’ultima, ineffabile barriera contro l’infinito.

Si sorrisero, imperituri ed allegri, e videro quanto avevano creato, restarono sereni a guardare come fosse bello il primo istante del mondo e già questo, il primo giorno, passava senza permanere né per il tempo degli istanti né per quello dell’eternità.

 

– Dai, adesso facciamo qualcosa di serio- disse lei.

E prima che sul mondo fosse calata la prima notte tutto era già finito.

 

 

 

*L’ingenuo chiederà -Ma forse che con il movimento ella non creò anche il tempo?- e a questi rispondo che il movimento, quando sia, come qui è, totalmente immerso nell’Indiscernibile, resta avulso dal tempo.

 

 

 

[Dedicato a chi parla troppo (e a chi, con i fatti, cerca di porre rimedio alle sciocche parole dei primi). Sarebbe certo scortese dedicarlo solo ai primi]

La competizione più dura

postato il 2 Ago 2011 in Main thread
da Vobby

Quello che giova al nimico nuoce a te, quello che giova a te nuoce al nimico.[Niccolò Machiavelli, Dell’arte della guerra]

Dei primi due uomini a entrare in competizione, uno è stato ucciso.
Dei primi due gruppi umani a entrare in competizione, uno è stato in parte distrutto e in parte schiavizzato.
E se non i primi i secondi, perchè la guerra è un fenomeno più antico dell’agricoltura.

La guerra, “l’uso illimitato della forza bruta”, ha sempre accompagnato l’uomo durante il corso delle ultime migliaia di anni. Da quando la storia ha avuto inizio, almeno un gruppo di Homo sapiens ha vissuto in stato di guerra con un altro. Anche considerando realtà geograficamente circoscritte si osserva che dove c’è indipendenza di diverse realtà e gruppi politici, c’è guerra, non importa quanto sia ridotto l’ambiente considerato: perfino l’isola di Pasqua ha conosciuto una serie di guerre devastanti*, che ridussero una società relativamente progredita e organizzata in classi e in diverse e autonome entità statuali all’insieme di poche migliaia di raccoglitori e cacciatori di ratti che entrarono in contatto con gli europei.
Allo spettro della guerra non si sfugge in alcun modo: le feste in onore di Zeus Olimpio celebrate nella Grecia antica sembrano prestarsi immediatamente come dimostrazione di quanto detto: esse costituivano un periodo di pace obbligatoria, durante la quale nessun greco poteva permettersi di compiere atti di guerra; ma in cosa si risolvevano, se non nell’esaltazione della guerra stessa? Corsa, corsa con armi, lancio del giavellotto, corsa dei carri, lotta, pugilato, pancrazio… queste competizioni semplicemente riproducono singoli aspetti del conflitto armato, descrivono la competizione sportiva come uso “limitato” della forza bruta. Eventi analoghi si verificarono nel Medioevo, durante il quale i rappresentanti della nobiltà, se non erano impegnati a cavalcare armati su territori altrui, impiegavano gran parte del loro tempo partecipando a tornei.
Quindi: il fatto che gli esseri umani, da quando ha avuto inizio la cosiddetta “civiltà”, non siano mai riusciti a vivere completamente in pace può dirci qualcosa sulla natura umana? Ma anche: non ci dice qualcosa sulla nostra natura il fatto che pur vivendo in tempi e luoghi pacifici non riusciamo a liberarci del bisogno di dare sfogo, almeno sublimandolo, a un nostro pressante bisogno di competere e quindi di guerreggiare?
No. Difficile anche solo dire che esista, una natura umana. Tutto ciò, piuttosto, ci dice qualcosa sulla civiltà.

Alcuni dicono la cosa più bella, sulla nera terra, sia un’armata di cavalieri. Altri dicono di fanti, altri di navi. Per me invece, è ciò che si ama [Saffo, frammento 16]

Il concetto stesso di civiltà è inscindibile da quelli di competizione, sopraffazione e guerra. Proviamo a dimostrarlo.
Quando comincia la civiltà, e quindi la storia? Nel momento in cui l’Homo sapiens diede vita ai primi gruppi gerarchicamente organizzati, oserei dire. Anche quel che si impara in prima elementare sembra conciliarsi con questa affermazione: dire che la storia inizia con l’avvento della scrittura vuol dire che la prima civiltà storica era caratterizzata dall’esistenza di una classe (scribi, sacerdoti, nobili o direttamente sovrani, a seconda dei casi) dedicata alla produzione e al mantenimento della cultura, e ciò testimonia l’esistenza di un meccanismo statuale o pre-statuale in virtù del quale una classe era nutrita dal surplus alimentare prodotto da una differente classe di lavoratori manuali, perlopiù agricoltori. La necessaria presenza di tale meccanismo porta ad un’affermazione forse più vaga, ma più sicura: la civiltà nasce insieme con l’attività politica. Questo è interessante, in quanto la definizione di politica oggi più largamente accettata è la seguente: “l’insieme di attività, svolte da uno o più soggetti individuali o collettivi, caratterizzate da comando, potere e conflitto, ma anche da partecipazione, cooperazione e consenso, inerenti al funzionamento della collettività umana alla quale compete la responsabilità primaria del controllo della violenza e della divisione al suo di costi e benefici, materiali e non”. Lungo. Mi sento di tradurla così: politica è l’attività di chi si contende, detiene e utilizza il controllo della forza su di una collettività (all’origine della politica il fatto che essa oggi si componga di elementi consensuali e culturali conta poco).
Parlando del passaggio dalla preistoria alla storia, la civiltà appare essere così il risultato della schiavizzazione di massa da parte di alcuni esseri umani, detentori e cioè utilizzatori della violenza, su di altri. Civiltà come figlia di un atto di guerra con il quale da una società (naturale?) egualitaria di cacciatori e raccoglitori si passò a una società gerarchizzata avente come caratteristiche minime una classe lavoratrice più o meno soggiogata e una militare, mantenuta dal lavoro altrui.
La civiltà si delinea così, almeno ai suoi albori, come una situazione assolutamente svantaggiosa per la maggior parte degli esseri umani, ma la sua diffusione si spiega facilmente: una civiltà, cioè una società gerarchizzata, è militarmente più efficiente di una egualitaria, poiché in quest’ultima non esistono militari-nobili nutriti dal surplus alimentare dei produttori. Esiste un modo famoso e suggestivo per sintetizzare quanto scritto finora:

:Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire questo è mio e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i pioli o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: guardate dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti! [Rousseau, discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza fra gli uomini]

La differenza fra la mia tesi e quella del caro Jean Jacques sta in questo: io non credo che il fondatore della civiltà fosse circondato di stupidi, credo che fosse armato. Vuoi per bisogno, paura o malvagità, un uomo volle per sé ciò che fino al giorno prima tutti potevano avere. Entrò così, primo fra tutti, in competizione con il prossimo, e vinse con la forza. Una forza bruta illimitata, quindi un atto di guerra. O, più pobabilmente, furono in molti ad armarsi: si fecero militari e divennero nobili. La sostanza è la stessa: all’origine, civiltà, politica e guerra sono un tutt’uno: si ebbe civiltà con un atto di guerra che fu anche il primo atto politico.
Nonostante la guerra sia spesso descritta come frutto di barbarie, essa si origina sempre nel cuore stesso della civiltà contemporanea, nell’economia e nel suo rapporto con la politica.

La parentesi sportiva merita di essere ampliata. E’ vero che lo sport oltre che di sfida e violenza (sublimata e regolata) si compone di elementi quali il rispetto repricoco, la lealtà, una sorta di cameratismo e fraternità che si sviluppa con i compagni di allenamento e perfino (soprattutto) con gli avversari. Questo non cambia la sua natura: stando ai giochi olimpici, lo sport nasce come attività esclusiva dei nobili volta a dar prova delle loro virtù militari all’infuori di un vero e proprio scontro bellico. I primi sportivi sono guerrieri nati che giocano alla guerra. La sportività, che si compone degli elementi positivi sopra elencati, non è altro che l’evoluzione del codice nobiliare che i guerrieri antichi e medievali osservavano perfino sul vero campo di battaglia. Come negare la sportività del duello fra Ettore e Aiace? L’ovvia differenza è che in guerra la forza non è limitata da regolamenti o armi spuntate. E’ un discrimine fondamentale, ma è l’unico.

*Ho scoperto da poco un fatto interessante: la maggior parte degli idoli di pietra che si possono osservare oggi sull’isola sono frutto di restauri: i re in lotta fra loro, vinta la battaglia decisiva, ordinavano la distruzione della statua raffigurante il rivale sconfitto, per affermare la propria supremazia. Prima che la roccia vulcanica presente sull’isola si esaurisse, si esaurirono gli alberi che fornivano il legname per le cave. Quindi gli idoli non poterono più essere costruiti, e i sovrani, non potendo altrimenti soddisfare la propria sete di prestigio e la loro vanità, presero a distruggere gli idoli altrui. Forse il peggior fallimento delle società gerarchizzate nella storia (il peggior fallimento della storia punto, quindi): i soldati prima schiavizzarono i popolani, poi si fecero nobili e sacerdoti vantando contatti con le divinità, grazie ai quali potevano garantire la prosperità del raccolto. Poi usarono il loro potere per costruirsi delle statue, distruggendo la vegetazione dell’isola e il suo ecosistema, infrangendo quindi la promessa del raccolto. Fatto ciò, pensarono bene di completare l’opera trascinando i diversi Stati dell’isola in una guerra totale.

 

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